Arte che cura
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Federica Arcibuono“Ottenere l'uguaglianza di genere e l'empowerment¹ di tutte le donne e bambine”, questo sarà l'Obiettivo di Sviluppo Sostenibile nº 5 che l'ONU approverà a settembre. Emancipare si, ma come? L'arte può giocare un ruolo fondamentale. Lita Cabellut, Esperanza Fernández, Lola Ferreruela ed Emilia Peña sono 4 donne gitane che hanno trovato nell'arte un'arma, come direbbe un poeta, “carica di futuro”.
“Questa cosa di "conferire potere" non mi piace”, dice dall'altro lato del telefono una voce chiara. A parlare è Lola Ferreruela. Un'artista gitana che con i suoi quadri ci invita a godere di ciò che di magico c'è nella vita, attraverso il linguaggio delle forme e dei colori. L'empowerment le dà l'idea di potere. E in questo consiste l'empowerment. Ma non di quel potere che Ferreruela ha in testa mentra parla con me.
Nel suo libro “Empowerment sotto esame”, Jo Rowlands distingue tra il potere su, il potere per, il potere con e il potere interno. Il “potere su” è quello che aveva Ferreruela in testa quel pomeriggio: un potere oppressore pari a zero; cioè, se uno vince l'altro deve necessariamente perdere. Ma l'empowerment non è così.
L'emancipazione o empowerment è un processo che ci da “potere per” il cambiamento, “potere con” gli altri per costruire reti e alleanze, e “potere interno” che ci permette di migliorare la nostra autostima. In poche parole, quando parliamo di empowerment parliamo di potere sì, ma di potere per prendere il controllo delle nostre vite, mettere in discussione l'ambiente in cui viviamo, ed essere parte attiva nel cambiamento sociale.
Obiettivo di sviluppo del millennio.
Nel 2012 l'ONU ha approvato la Risoluzione 66/288, dal titolo “Il futuro che vogliamo”, al cui interno riconosceva “che le opportunità grazie alle quali le persone possono cambiare la propria vita e il proprio futuro facciano parte della presa di decisioni, e che esprimano le proprie preoccupazioni che sono fondamentali per lo sviluppo sostenibile”. E, in particolare, lo sviluppo sostenibile sarà al centro del dibattito della prossima Cumbre dell'ONU che si terrà il 25 e il 26 settembre a New York.
Il 2015 sembrava tanto lontano, eppure è arrivato. E con esso anche il momento di fare il bilancio di quanto si è conseguito in relazione agli 8 Obiettivi dello Sviluppo del Millennio (OSM); tra di essi, il 3° era “promuovere l'uguaglianza di genere e l'emancipazione della donna”. Sono già passati 15 anni da quando l'Assemblea Generale dell'ONU ha approvato la Dichiarazione del Millennio che conteneva questi 8 obiettivi che dovevano essere raggiunti con la data limite di quest'anno, e sembra che qualcosa non stia funzionando bene nel modello di sviluppo voluto dalle Nazioni Unite.
Per questo a partire dal 2012 quest'organizzazione internazionale collabora con la società civile, con il mondo accademico e con le imprese, per l'elaborazione della cosiddetta “agenda post2015” destinata a fissare i nuovi Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (OSS). C'è ancora un dibattito aperto, soprattutto per quando riguarda il come quantificare gli obiettivi; ma sembrano essere più o meno chiari i prossimi 17. Tra tutti, l'obiettivo 5,“ottenere l'uguaglianza di genere e l'empowerment di tutte le donne e bambine” supponde un'opportunità affinchè il mondo che difende la Piattaforma di Beijing sia possibile: un mondo in cui tutte le donne e bambine di questo pianeta possano essere libere e decidere del proprio destino.
Essere forte essendo creativa.
E noi gitani “non siamo extraterrestri”, puntualizza Patricia Caro, una giovane attivista gitana per i diritti delle donne rumene. “In fin dei conti, ci colpiscono le stesse cose che colpiscono voi”, ci dice. “Una donna che porta sulle spalle il peso di un'intera piramide di oppressione; questo significa essere una donna gitana”; questo è il modo in qui questa psicologa vede le donne gitane che sopravvivono ad una situazione che, secondo Caro, è peggiore di quella di 50 anni fa, perché la violenza è più invisibile. Ma le donne gitane non si arrendono facilmente.
“Come vedo le donne che portano il peso di questa piramide di oppressione? Le vedo sopportarla anche a costo della salute, con una forza e un impeto impressionanti, cercando di ingentilire la forza, e provando a trovare il lato positivo, essendo forti, affrontando la vita e la propria condizione al loro meglio, e nel modo più creativo possibile, proteggendo allo stesso tempo i propri cari”, afferma. È che l'arte possiede questa doppia natura: da un lato è un balsamo catartico per le pene che affliggono l'anima; dall'altro funge da arma per il cambiamento sociale.
L'arte, per Lola Ferreruela è, “esprimere la parte più alta dell'essere”. “Il paese gitano vede nell'arte una delle principali fonti di sopravvivenza”, ci dice Emilia Peña, una gitana di Lebrija (Sevilla) che ha scambiato la sua macchina fotografica per fare politica, per cambiare la realtà che la circonda. Esperanza Fernández, che emana flamenco da tutti i pori, ci spiega come la scena la aiuta a liberare il peso che porta. Si libera sul palcoscenico, “sí, ma si tratta di una liberazione gloriosa”.
Emancipazione attraverso l'arte.
E se qualcuno incarna perfettamente il potere dell'arte come strumento di emancipazione per la donna gitana, questo qualcuno è Lita Cabellut. A 13 anni viveva per strada, ne El Raval a Barcelona, circondata da borseggiatori e prostitute. E a 17 anni stava esponendo i suoi lavori per la prima volta. Oggi questi ritratti di primi piani, tanto suoi, riempiono i musei e le gallerie di mezzo mondo: New York, Dubai, Miami, Singapore, Hong Kong, Barcelona, Londra, Parigi, Venezia, Monaco o Seul.
Fa male guardare negli occhi i suoi personaggi, come a lei fece male guardare Goya la prima volta che ha visitato il Museo del Prado: “Il mondo di Goya non era per me una fantasia, ma un riconoscimento reale e vero dei miei sentimenti. E sì, continua a dirmi le stesse cose. Goya parlava dell'incapacità dell'essere umano".
Di quella bambina che è stata Cabellut conserva “tutto. Solo che questa bambina è intima, molto amica e molto amata dalla donna”. Forse per questo lo spettatore ha la sensazione che i suoi quadri gli vogliano gridare qualcosa con violenza: “Mi piace raccontare la mia storia. Mi piace volermi bene, perdonarmi, accettare tutto quello che non capisco di me. Ho scelto i ritratti per dimostrare che il dolore, la compassione, l'amore, la passione, hanno tutti gli stessi occhi, le stesse paure, le stesse ossa e la stessa struttura. Voglio fare un grande ritratto di noi, con la conoscenza che porto dentro”. E questo perché “l'arte ci cura”.
Essere gitana ha dato a Lita Cabellut lo spirito.“Lo spirito si ha nella vena, in questo nervo, questo movimento rapido, intenso, quest duende se lleva en la vena, ese nervio, ese movimiento rápido, intenso, questo apice che va dritto all'essenza di questa perla nera. Questo voler morire per un istante di spirito. Questa è la forza della mia arte. Lo spirito gitano”.
Orgogliose di essere gitane.
Se il paese gitano fosse un palo flamenco², abbiamo chiesto alla cantaora Esperanza Fernández, e lei ci ha detto che sarebbe una seguiriya; il canto per eccellenza della tristezza.“Reniego de mi sino como reniego de la horita, madre, que te conocido” (Rinnego la mia condanna a morte, come rinnego l'ora, o madre, che ti ho conosciuto[tdt]); cantava Manuel Cagancho. E tuttavia queste artiste si sentono molto orgogliose di essere gitane:“Essere gitana mi ha dato una visione dell'amore, della famiglia e della creatività molto intensa, e questo lo porto nella mia opera”, ci dice Lola Ferreruela, autrice della serie “El beso gitano”. “Portiamo con noi un tratto di nomadismo che ci ha fatto comprendere meglio gli esseri umani, e questo tratto ci ha fornito una comunicazione fantastica importante”, aggiunge.
Per Lita Cabellut, “il fatto di essere gitana certo che ha influito sulla mia arte. Ho altre finestre, altri paesaggi, una gamma di colori e trapezi nel mare. Noi gitani siamo diversi, veniamo da lontano, abbiamo camminato in molte terre e possediamo tante influenze di cui nemmeno noi ci rendiamo conto e, a volte, questa memoria che hanno il corpo e la mente ti fa reagire, pensare, percepire in una maniera che noi definiamo molto gitano”.
“Essere gitana per me è un modo di essere, un modo di percepire, vivere e capire la vita. Anche se tutto questo per la società significa essere inferiori, non essere visti di buon occhio e disprezzati, dover dimostrare e lavorare di più; oltre che a dover soffrire di più solo per il semplice fatto di essere nata gitana”, afferma Emilia Peña, che con la sua esposizione “Tratti gitani” ha provato a spiegare ai newyorchesi la filosofia gitana. Filosofia che si può riassumere con le parole di Patricia Caro: “una filosofia orientata completamente verso il presente e completamente di gruppo. Persino il sentimento di libertà è più un sentimento di libertà di gruppo”.
È questa brama di libertà che spinge Lola Ferreruela ogni mattina a prendere in mano i pennelli. “La libertà consiste nel farsi domande interessanti, queto vuol dire andare avanti, e la mia libertà l'ho ottenuta mettendo in discussione tutto e dando risposte buone”.
Lotte connesse tra loro.
Siamo portati a pensare che i gitani siano maschilisti a prescindere, ma Patricia Caro ci smonta queto stereotipo:“il maschilismo è l'espressione di un sistema, quello patriarcale, che si basa sull'oppressione di alcuni gruppi rispetto ad altri. Ha un collegamento anche con l'accumulo di ricchezza e con la sedentarietà. Dal momento che noi non siamo degli alieni, e non siamo nemmeno impermeabili, anzi tutto il contrario, nel momento in cui ci stabiliamo in un posto, una delle cose che ingloba la nostra cultura è il tema del maschilismo”.
Con questa visione del maschilismo non come un qualcosa di intrinseco della cultura gitana, ma come il frutto di un contesto sociale più ampio, è d'accordo Emilia Peña: “Dentro la mia 'gitaneità', essere donna significa anche avere alcuni principi di femminismo e parità molto marcati. Certo significa anche dover lottare perfino di più in questo mondo creato per l'uomo bianco, europeo, etero e patriarcale”. E in questo le lotte delle donne gitane per la propria visibilità coincidono con altre battaglie più famose: “È un po' come la lotta che hanno fatto le artiste donne di colore negli Stati Uniti per quanto riguarda l'esposizione delle loro opere nei musei più importanti”, ci ricordaCaro.
E si uniscono anche con altre battaglie che altre donne prima di loro hanno portato avanti. “Coco Chanel è per me il simbolo della determinazione, della disciplina e della capacità di sopravvivenza. Frida, la donna infedele, sposa della vita, amante della morte e creatrice dei campi di fiori in paesaggi secchi e tristi, la risata e l'allegria durante le tempeste. Mi identifico con queste due donne, nelle loro adorabili, insopportabili e peggiori forme”, spiega Lita Cabellut, che ha due serie dedicate proprio a queste donne.
“Se posso parlarti di una di loro, penso che per questa intervista sia molto importante Pastora, la Niña de los Peines”, inizia a raccontarci Esperanza Fernández parlando di donne che sono state un esempio per la sua vita. La Niña de los Peines, questa coraggiosa gitana, come la definisce la Fernández, si è fatta avanti in un mondo di uomini, “e ha lottato tanto contro questo maschilismo sin da giovane, ed è riuscita a mettersi allo stesso livello degli uomini”. Per questo la cantaora, che sognava di diventare ciò che è oggi sin da bambina, è convinta che le donne che oggi hanno tanto successo nel mondo del flamenco, debbano molto alla cantaora assoluta che è stata Pastora Pavón, la cui voce è stata dichiarata Bene di Interesse Culturale dalla Junta dell'Andalusia.
Emancipazione collettiva.
L'emancipazione non può mai essere individuale. Dev'essere, per definizione, collaborativa e collettiva, che poi ha anche effetti sul singolo. E se ciò è vero sempre, lo è ancora di più in una cultura dove il gruppo prevale sull'individuale.“L'emancipazione è uno strumento che rafforza i legami di coesione, perché quando una donna prende potere, quello che fa è aiutare le altre donne che le stanno intorno. Noi donne gitane siamo molto espressive, e tendiamo a creare gruppi informali di donne dove esprimiamo le nostre preoccupazioni, le nostre necessità, dove chiediamo aiuto o consiglio su come affrontare certe situazioni”. Proprio dell'importanza di questi gruppi ci parla Patricia Caro, a cui va aggiunto il ruolo della famiglia.
Per Esperanza Fernández la sua famiglia è stata “tutto, l'appoggio più totale”, e senza di loro srebbe stata molto dura.“Mio padre pur sapendo che il mondo dell'arte e che quello del flamenco era molto difficile, e che lo è tuttora; mia madre e mio padre mi hanno sostenuto al 100%, anche perché sapevano che non avrei potuto vivere senza questo mondo. Io sin da piccola già lo sapevo. Mio padre ha avuto, e continua ad avere, un ruolo molto importante come consigliere. A volte mi sono sbagliata per non averlo ascoltato, ed era giusto sbagliarmi; ma ho seguito tanto i suoi passi, e grazie a lui sono la persona che sono”.
“La mia famiglia è fonte di ispirazione, per le sue forti personalità, e mi ha dato un'infanzia meravigliosa. Per la loro nobilità d'animo, devo ai miei genitori tutto quello che sono oggi, e tutto quello che di buono ho fatto nella mia vita, mentre quello di non tanto buono lo devo a me stessa. Chiedo loro scusa per aver preferito fare di testa mia, perché anche se fa parte della conoscenza di me stessa e della mia libertà, ora mi rendo conto che tutto quello che io ho conosciuto del mondo era contenuto in una versione migliore nella mia famiglia. I miei genitori mi hanno dato libertà durante l'infanzia, da bravi gitani, e pur non essendo stati d'accordo con la mia ribellione adolescenziale, hanno capito che si è trattato di una mia scelta, visto che anche loro sono degli esseri liberi”, continua Lola Ferreruela.
Se le donne fossero un palo flamenco, Esperanza Fernández non ha dubbi, sarebbero le 'allegrie', perché sono quelle che portano l'allegria nel mondo, coloro che danno sostegno, spinta, luce. Malgrado non la portino sempre a se stesse e glielo si debba ricordare a volte. A settembre, il ricordo arriverà in mano all'Assemblea dell'ONU sotto forma di Obiettivo di Sviluppo Sostenibile.
¹inteso come 'emancipazione' (ndt)
²'palo' è il nome dato alle varie forme musicali del flamenco (ndt)
Translated from Arte que cura.