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Antiracket "G. Giordano": il volto dell'antimafia gelese

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Palermo

Da "città della mafia" a "città antimafia". Gela, ormai da dieci anni, ha rotto col passato. I commercianti, vittime di racket, denunciano senza paura i loro estorsori supportati dall' "Associazione Antiracket G.Giordano". Punto di riferimento per chi non vuole più pagare il "pizzo". Cafébabel ha incontrato il suo presidente, Renzo Caponetti.

Negli anni Novanta il giornalista Giorgio Bocca la definiva il “fondo dell’inferno”. Epiteto che già altri scrittori siciliani avevano utilizzato riferendosi a Gela. Città in provincia di Caltanissetta, feudo dei poteri mafiosi sin dai tempi delle guerre tra fazioni criminali che hanno insanguinato gli anni Ottanta. Un territorio in quel periodo martoriato da Cosa Nostra e dalla Stidda, che con le loro attività illecite hanno piegato e poi spezzato il territorio gelese. Usura e racket sono diventati la norma, quasi un’abitudine. Pagare “u pizzu” è normale. Nessun commerciante ha il coraggio di reagire, lasciato da solo in una terra senza speranze. Eppure, proprio in quell’angolo di inferno, un commerciante gelese, Gaetano Giordano, decide di dire basta, di non pagare e denuncia i suoi estorsori. Il 10 novembre 1992 viene brutalmente ucciso in pieno centro. Un altro commerciante, Nino Miceli, seguendo l’esempio di Giordano denuncia i suoi aguzzini, perdendo la vita il 5 dicembre 1996.  L’effetto intimidatorio degli omicidi non lascia spazio ad alcun germoglio di cambiamento. I commercianti hanno paura, consci che denunciare equivale a morire. Così da quel 1996, omertà e paura governano la città. Almeno fino al 2005.

Oggi le cose sono cambiate. Gela respira aria di libertà e di cambiamento, grazie alla nascita di un’associazione antiracket, sorta il 27 maggio 2005, dall’idea di Renzo Caponetti, proprietario dal 1978 di un’impresa di forniture alimentari per ristoranti e pub ed Emanuele Goldini, giovane imprenditore gelese, recentemente scomparso. Proprio Caponetti, presidente dell’associazione intitolata a Gaetano Giordano, riesce in 10 anni, in sinergia con le forze di polizia del territorio, in una vera impresa: rompere il silenzio. Più di 30 blitz effettuati, 163 denunce formalizzate, centinaia di mafiosi in galera e cosche senza più un’identità. Ma il prezzo che Caponetti deve pagare è molto alto. Costantemente minacciato, vittima di agguati, ha subìto numerosi pestaggi. Tanto da avere assegnata una scorta che lo protegge 24 ore su 24. Il suo ufficio all'interno di un vecchio deposito, paragonabile ad un bunker, si trova a due passi dalla raffineria Eni, nel cuore di quella Gela che Caponetti non ha mai voluto abbandonare. Noi lo abbiamo incontrato.

Com'è iniziato tutto? 

Quando iniziai la mia attività di commerciante, denunciai sin da subito i miei estorsori. Le minacce sono arrivate puntuali e per anni sono stato vittima.  Poi, nel 2005, insieme ad un piccolo gruppo di commercianti, abbiamo deciso di ribellarci. E così è nata l’Associazione Antiracket Gaetano Giordano, di cui sono il presidente nominato da Tano Grasso, a sua volta presidente onorario della FAI - Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura italiane ndr - Oggi non siamo più uno sparuto gruppo, ma ben 173 soci uniti nella lotta alla mafia”.

Un percorso tortuoso e difficile...

Eravamo così pochi a denunciare che la mafia sorteggiava da una cesta gli imprenditori da uccidere. Mio padre era ufficiale dell’aereonautica militare, da lui credo di avere ereditato un forte senso della giustizia che ho cercato di mettere in pratica anche in questa terra in ginocchio davanti ai poteri mafiosi. Così, ho iniziato a denunciare chi voleva la fine della mia impresa e della mia persona. Ma eravamo pochissimi, tanto da essere facilmente individuati dalla Stidda che, nel ’92, fece un sorteggio per far decidere al fato quale nome dovesse essere eliminato per primo. Per loro un nome valeva l’altro. E saltò fuori quello di Giordano”.

Dieci anni dopo la fondazione dell'associazione qual è il suo bilancio?

Dal 2005 ad oggi abbiamo fatto grandi passi avanti. Il risveglio delle coscienze vissuto qui a Gela mi fa ben sperare per il futuro. È chiaro che non bisogna mai abbassare la guardia, perché c’è ancora tanto da fare, ma la mafia ha sicuramente subìto delle forti batoste. È un dato di fatto”.

Come funziona l’associazione?

La vittima che denuncia viene da me personalmente, la accompagno presso la sede delle forze di polizia. Ma il cammino non si ferma alla denuncia. Ovviamente dobbiamo garantire la massima protezione. Per questo a tutti gli estorti viene assegnata una macchina di vigilanza che a giro garantisce la loro incolumità. Le vittime sono seguite anche nella fase processuale, soprattutto nel momento in cui devono additare il colpevole. Il nostro obiettivo è quello di vincere la solitudine di chi è oggetto di estorsione, di operare un raccordo tra le vittime del racket e le istituzioni e garantire una valida prospettiva di sicurezza. Sono contento di quello che abbiamo fatto finora, soprattutto degli imprenditori che ora non hanno più paura. Prima il 95% dei commercianti non denunciava, adesso chi non trova il coraggio è solo un piccolo gruppo. Lavoriamo anche per loro”.

Gela, città dell'antimafia? 

Gela veniva definita la città della mafia. Ora, invece, talvolta sento parlare di una Gela antimafia. Questo mi rende felice”.

Cosa significa vivere sotto scorta?

Non è facile , ma ci si abitua. Certo, a volte mi manca fare una passeggiata con mia moglie, prendere un gelato in tranquillità. Vivo blindato tra ufficio e casa. Ma sono io che ho scelto questa vita. Non mi pento di nulla. Rifarei tutto”.

E la politica?

Credo che la politica non s'impegni abbastanza per combattere il fenomeno mafioso. Infatti ho sempre cercato di tenermi lontano da questa sfera. Tante volte mi hanno proposto la candidatura a sindaco o ad assessore, ma ho sempre rifiutato. Meglio non avere nulla a che fare con questo mondo”.

Come si muove oggi la mafia a Gela?

La mafia a Gela cerca di riorganizzarsi quotidianamente. Lo vediamo con le forze di polizia. Cerca sempre nuovi giri d’affare per trarre il massimo del profitto. Non si spara, come negli anni passati perché l’organizzazione ha attuato la politica della sommersione. Fare rumore non porta a nulla di buono. Loro lo hanno capito”.

La mafia si può sconfiggere?

Il problema è culturale. Avremmo bisogno di una rivoluzione culturale completa. Sulla mentalità c’è molto da lavorare. Ancora ho a che fare con delle persone che non vogliono parlare. L’omertà è sempre molto forte, ma sono convinto che col tempo, lentamente, le cose cambieranno. Se non ci credessi non sarei qui”.

Mai più soli. Questo è lo slogan dell’associazione che negli anni è diventata modello, stimolo e guida per gran parte della Sicilia. Dal 2005, infatti, sono tantissime le Associazioni Antiracket nate sul modello gelese: da Niscemi a Vittoria, passando da Piazza Armerina, quello che veniva definito il fondo dell’inferno, lentamente, si sta trasformando in avamposto della legalità.