Anche i manager piangono: dallo stress alla crisi finanziaria
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Degli spettri si aggirano, discreti, per l'Europa: i manager in crisi. Privilegiati, strapagati e viziati? Niente affatto, ribattono: il crollo dell'economia li ha travolti, con buona pace di Joaquin Almunia, commisssario europeo agli Affari economici e monetari, che il 14 novembre scorso ha riaperto la polemica sui supermanager proponendo un tetto ai loro stipendi.
«Macché supermanager», denunciano le associazioni di categoria: sotto l'albero di Natale ci saranno meno – o zero – bonus e più stress, meno auto di lusso e più sedute dallo psicoterapeuta. L'argomento all'ordine del giorno è sempre lo stesso: la crisi. Una crisi contro cui i manager corrono ai ripari: c'è chi si ribella e chi si rivolge agli specialisti, ma tutti vogliono far sapere al mondo che anche loro – ricchi, molto o relativamente – piangono.
Dalla limousine al tupperware
Dati alla mano, sembra che la crisi non risparmi nessuno a Eurolandia, manager inclusi. Se una recente indagine dell'Istat rivela che quelli italiani sono, insieme alle casalinghe, la categoria più stressata, ad aggravare la situazione è arrivata la crisi, con licenziamenti e crollo dei consumi. Per Manageritalia, un'associazione di categoria che rappresenta 33mila dirigenti italiani, nel 2008 la disoccupazione dei manager è cresciuta del 15% rispetto al 2007, e molti – il 58% degli intervistati – sono costretti a ridurre i consumi per far quadrare i conti. La ricerca dell'Associazione Donne e qualità della vita racconta di un progressivo impoverimento che contagia anche le abitudini alimentari: con la “sindrome disoccupazione” arriva, persino per i manager, il proletarissimo tupperware, che il 25% dichiara di portarsi al lavoro col pranzo già pronto. Anche in Francia la situazione non è rosea, a detta dei dirigenti. Secondo un sondaggio di Viavoice, nove manager su dieci temono un aumento della disoccupazione e un terzo prevede un peggioramento della situazione economica. Con la povertà in agguato, naturalmente, lo stress – già alto – esplode, come rivela un sondaggio di hereisthecity.com, un sito di professionisti della finanza. Il 71% degli partecipanti ha dichiarato di essere più stressato di sei mesi fa, il 69% di essere affetto da sintomi come insonnia, inappetenza, difficoltà a concentrarsi e apatia e il 30% di sentirsi impotente di fronte a questo disagio. In Inghilterra, i manager sull'orlo della crisi di nervi – solo quelli super, perché il conto è di 20mila euro a settimana – si ricoverano al Causeway Retreat, una clinica vicino a Londra. In Italia, i meno ricchi si consolano come possono: chi, come all'Ascom di Bergamo, con lezioni di "zen manageriale", chi – secondo la ricerca dell'associazione Help me, circa un terzo degli intervistati – con la preghiera.
L’open space mi sta uccidendo
Se i manager soffrono in tutta Europa, solo in Francia il loro malessere è diventato un grido di dolore mediatico, che la dice lunga su un lavoro difficile al di là dell’attuale crisi. Merito di due sociologi, David Courpasson e Jean-Claude Thoenig, che in Quand les cadres se rebellent hanno analizzato le forme di resistenza elaborate dai dirigenti contro le loro imprese. Intervistando personale "ad alto potenziale" di grandi aziende, gli autori concludono che «i manager si ribellano più spesso di quanto si immagini, ricordando alle imprese che esse non possono violare impunemente la loro sfera privata». I "ribelli" rifiutano promozioni, si licenziano, cercano lavoro nel no profit pur di non sottostare ai diktat del management. Un'analisi confermata da Alexandre des Isnards e Thomas Zuber – trentenni, laureati al prestigioso Sciences Po di Parigi e oggi consulenti aziendali – che, in L'open space m'a tuer, denunciano il controllo sociale nascosto dietro le forme "leggere" di managemet. Ci si dà del tu, si lavora – spesso masticando un inglese pieno di "forwardare", "timesheet" e "brief" – a stretto contatto negli open space, dove il controllo dall'alto sembra non esistere. È solo un'impressione: la pressione c'è, solo che, come hanno dichiarato gli autori al Nouvel Observateur il 2 ottobre scorso, si presenta come «dittatura del buon umore e della convivialità».
Che il libro abbia centrato il bersaglio lo si capisce leggendo il forum dei lettori. Scrive Natalie: «Lavoro da due anni in un open space e non ne posso più della promiscuità. C'è sempre confusione e questo produce un effetto stress a catena». «Stare in un open space è come lavorare ai tempi di Zola!», azzarda Mathilde, mentre c'è persino chi, come Bruno, propone di bruciarli perché «oggi, davanti ai nostri pc, siamo come le operaie tessili nell'Ottocento davanti alle macchine da cucire». Manager di tutto il mondo, unitevi, allora, magari cominciando la vostra rivoluzione di velluto da Facebook: il gruppo L'open space m'a tuer ha già 853 membri.