Alberi, l'arte tra cosmopolitismo e memoria
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Alberi è la nuova cine-installazione di Michelangelo Frammartino, regista de Le quattro volte. Inaugurata al MoMA PS1 di New York sta girando l'Europa per mostrare il fascino di una tradizione antichissima.
Presentata in anteprima italiana al Filmmaker Festival di Milano, Alberi è la nuova cine-installazione di Michelangelo Frammartino che con attente carrellate su una natura verde e rumoreggiante descrive il rituale dei culti arborei. Questo mediometraggio s’inceppa a metà strada tra il cinema, il documentario e l’installazione, tra la potenza visiva, la testimonianza e la disinvoltura al di là dello schermo, ma, insieme alla sua natura ambigua, mantiene molto chiare alcune istanze.
In primo luogo è un omaggio al cinema, a un certo tipo di cinema, ed è proiettato in loop per offrire, soprattutto ai giovani che non l’hanno mai provata, la libertà di fruizione dell’immagine. “Ricordo – afferma il regista – che negli anni ’70-’80 la proiezione era circolare: entravi quando volevi e uscivi quando volevi, poi ricomponevi il film. Il mio è un omaggio a quel tipo di fruizione, alla frontalità e alla circolarità di quand'ero ragazzo. Lasciare allo spettatore la possibilità di decidere qual è l’inizio e qual è la fine è un gesto forte che vuole far riflettere su cosa significhi la libertà nel guardare”.
Quindi non ci sono orari né confini già stabiliti, se non quelli di uno spazio che diventa parte integrante dell’installazione. A Milano si è optato per il Manzoni, un vecchio cinema del centro chiuso ormai da anni, che, oltre al ripensamento della fruizione visiva, contribuiva con la sua solennità a esaltare il valore rituale non solo dei culti arborei, ma del cinema stesso. “Ciò che m’incuriosisce ancora molto – dice Frammartino – è provare ad adattare questo lavoro a spazi diversi e capire cosa diventa ogni volta”.
La storia di Alberi, in effetti, è tutt’altro che monotona: inaugurato al MoMA PS1 di New York, è stato in seguito proiettato in una galleria di Copenaghen e presso il vecchio cinema Manzoni. Per il futuro si parla di una cattedrale a Berlino, del Mart di Rovereto, di alcuni musei americani e forse di Parigi. Sempre a patto che lo spazio sia grande abbastanza da ospitare un senso di ritualità, questo lavoro, che nasce da una collaborazione internazionale – dell’Italia con la Germania per la produzione, di Michelangelo Frammartino e Ita Zbroniec-Zajot per la fotografia –, ha un animo multiforme e cosmopolita.
IL DIALOGO E LA MEMORIA
“Mi sembra necessario un passo verso la collettività e la collettivizzazione del rito; credo che questa piazza abbia bisogno di un pubblico ampio, della possibilità di essere in tanti a fronteggiare l’immagine”, ha spiegato Frammartino, e la piazza a cui si riferisce è quella di Satriano di Lucania in Basilicata. È lì che gli uomini scendono dal paese fino a una foresta di altissimi, folti faggi e si ricoprono d’edera per diventare romiti. Personaggi mezzi-uomo e mezzi-albero che sovvertono le regole della composizione visiva (in cui l’uomo è al centro e la vegetazione sullo sfondo) e trasmettono il fascino di un rituale antichissimo.
I culti arborei fanno parte di una pratica che mette la vita umana e quella vegetale sullo stesso piano, intrecciandole. Una tradizione atavica, sprofondata nella memoria di questi paesini rurali: inaugurare Alberi al MoMA PS1, il cuore dell’arte contemporanea, in una città che è emblema del progresso e della modernità, presentava un conflitto, che inaugurava, insieme all’opera, una scommessa.
La risposta della popolazione newyorkese è stata inaspettata, positiva; l’affluenza numerosissima: i riti mitici dell’Italia meridionale, nella forma di Alberi, hanno suscitato grande curiosità. “Ma ancora più bello – racconta Frammartino – è stato l’effetto che l’accoglienza dei newyorkesi ha avuto sulla gente di Satriano. Perché, come ha detto Rocco Perrone, il ragazzo che è venuto con noi per rappresentare Satriano, la tradizione dei culti arborei si stava affievolendo negli ultimi anni, a poco a poco stava per scomparire. Una risposta così positiva, emozionante, è servita a riaccendere la loro passione per questo rito, portandoli a una sorta di rifondazione”.
Satriano nel suo piccolo è un grande esempio. Ora che la globalizzazione sembra l’unico destino, conoscere la storia di questo villaggio sperduto nella campagna lucana può essere illuminante: l’immersione in un mondo cosmopolita non conduce per forza alla perdita d’identità. Il contatto col diverso, meglio se opposto, può ravvivare le tradizioni, perché, attraverso il dialogo, la memoria diventa narrazione. Nell’esperienza individuale, il silenzio permette al ricordo di restare vivido tra le nostre fibre, e parlarne con qualcuno significa svolgerlo per trasformarlo in letteratura. Ma quando si tratta di memoria collettiva, la condivisione, la trasmissione, il discorso non fanno che autenticarla, costruiscono cultura. Questo sono i grandi poemi epici, il Mahabharata, l’Iliade, la Bibbia: interminabili dialoghi nel tempo. E come Alberi per Satriano, il cosmopolitismo può servire a recuperare le proprie radici.