Aggressioni contro LGBTI in Turchia: da che parte sta Ankara?
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La repressione del Gay pride di Istanbul poche settimane fa. I manifesti omofobi ad Ankara pochi giorni dopo. A coronare l'escalation di intolleranza, l'agghiacciante aggressione di una delle figure di spicco dell'attivismo LGBTI e a tutela dei sex worker in Turchia. Tutto nel giro di pochi giorni. Questo ci spinge ad una riflessione: cosa succede in Turchia nei confronti delle minoranze sessuali?
Tutto è iniziato la domenica del 28 giugno. Due giorni dopo l'approvazione dei matrimoni omosessuali da parte della Corte suprema degli Stati Uniti, la Polizia turca reprimeva con cannoni ad acqua, proiettili di gomma e gas lacrimogeni, la tradizionale parata del Gay Pride di Istanbul.
Era dal 2003 che l'Istanbul pride si teneva con (relativa) tranquillità. Già nel 2011 aveva radunato diverse migliaia di partecipanti, per poi crescere fino a diventare una delle parate più seguite di tutta l'Europa orientale. Ovvero quella porzione del Vecchio Continente dove i diritti di LGBTI (lesbiche, gay, bisessuali, transessuali e intersessuali) faticano non solo ad essere tutelati, ma persino riconosciuti.
Poi, lo scorso 7 luglio, alcune vie di Ankara sono state tappezzate di manifesti con minacce di morte rivolte agli omossessuali, firmate dalla sedicente Young islamic defense. Sui volantini si leggeva: "Tutti coloro che si comportano male e aderiscono alla pratica del popolo di Lot devono essere uccisi?". Un riferimento lampante alla sodomia, che si rifà alla tradizione biblica (inclusa anche nel Corano) di Sodoma e Gomorra.
Chi teme la visibilità degli LGBTI turchi
Il sospetto che ci potesse essere una volontà politica, dissimulata ma desiderosa di lanciare un messaggio chiaro e contrario ad altre "concessioni" nei confronti delle minoranze gay, non sarebbe una novità in Turchia. Secondo gli attivisti, l'Amministrazione pubblica non ha mai dato pieno supporto a manifestazioni come l'Istanbul pride.
Su raccomandazione di Yuri Guaiana dell'associazione Certi Diritti, ci siamo rivolti a Kemal Ördek, co-fondatore di Red Umbrella e storico attivista turco per il riconoscimento di diritti dei sex worker in Turchia. L'opinione di Ördek sulla repressione della Polizia di Istanbul è tuttavia moderata: non individua nel comportamento degli agenti una matrice anti-occidentale, islamista, una regia politica; ma un malcelato desiderio di attenuare la visibilità degli LGBTI turchi che, a suo dire, sarebbero ormai sostenuti da esponenti locali della classe politica, della sfera culturale e da buona parte della società.
La brutale aggressione a Ördek: da che parte sta la Polizia?
Qualche giorno più tardi, il 9 luglio, arriva la notizia agghiacciante dell'aggressione a Kemal Ördek. Nella sua casa ad Ankara, il giovane è stato derubato, picchiato e stuprato. Lui stesso ha denunciato l'accaduto in un lungo post pubblicato su Facebook. La paura, il dolore «del corpo e nello spirito», la corsa al bancomat per ritirare altro contante, sotto la minaccia dei tre aggressori: «Ti uccido scopandoti a sangue, non ti azzardare ad sporgere denuncia, ti taglieremo la testa, ti ammazzeremo».
I dettagli sulle violenze fisiche e psicologiche non mettono sotto accusa soltanto i suoi aggressori. A finire nel mirino sono le Forze dell'ordine che, incontrate casualmente per strada, hanno inizialmente zittito Ördek che cercava la loro protezione. I tre si sono giustificati dicendo loro: «Non faccia caso ai propositi di quella checca… Ci ha invitati lui a casa sua, sa come sono quelli là». Gli agenti non hanno battuto ciglio davanti alle minacce di morte proferitegli dagli assalitori durante le ore trascorse in commissariato. Un muro di gomma. Hanno cercato di minimizzare lo stupro e hanno provato a dissuaderlo dal denunciare i malviventi. Un poliziotto, riferisce sempre Ördek, avrebbe detto: «Non vi spaventate, se fa una denuncia, fatela anche voi per diffamazione».
L'attivista è convinto di rischiare la vita adesso che i suoi aguzzini sono a piede libero: conoscono il suo indirizzo e continuano a minacciarlo per telefono. Risuona l'offesa "Popolo di Lot", che è anche il termine usato da uno dei poliziotti nel racconto di Ördek sulla sua "discesa agli Inferi". (Il post è stato tradotto integralmente in italiano e inglese.)
Un percorso difficile
Nei giorni successivi all'aggressione, su Facebook è stata aperta una pagina per Ördek. Si chiede di inviare lettere di protesta al Governo, si fa appello alla mobilitazione, se necessario ad organizzare sit-in di protesta davanti alle ambasciate turche.
Di fronte a una simile esperienza personale, forse anche uno strenuo attivista come Kemal avrebbe difficoltà a trovare conforto nella notizia (positiva) che arriva da un tribunale di Izmir in questi giorni: tre condanne a 27 anni di reclusione per lo stupro di una prostituta transessuale, avvenuto nel 2014.
Due facce di una stessa medaglia, difficile da scalfire. Troppo presto forse per trarre conclusioni affrettate, ma viene spontaneo intravedere nuove ombre addensarsi lungo il percorso della Turchia verso un pieno riconoscimento (e soprattutto una piena accettazione) di eguali diritti. Nel frattempo anche l'Alto commissariato ONU per i diritti umani stigmatizza l'escalation, chiedendo con forza alle Autorità turche di «agire per combattere la violenza e la discriminazione omofobica e transfobica» e «di assicurare che le vittime LGBTI di reati siano trattate con rispetto e dignità e abbiano accesso ai meccanismi di protezione e a cure effettive». Tutto quello che a Kemal Ördek è stato negato.