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A proposito di Da: il folk controcorrente

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Translation by:

Veronica Monti

Cultura

Quel­lo dei fra­tel­li Coen non è un nuovo film bio­gra­fi­co su uno sco­no­sciu­to mu­si­ci­sta folk del­l'i­ni­zio degli anni '60, che si afferma nel Gree­n­wi­ch Vil­la­ge di New York. È una sto­ria che deve la sua esi­sten­za stes­sa al folk.

Allora, sicuramente i dati storici sono dettagliatissimi, l'epoca e il contesto descritti con minuzia e le referenze onnipresenti. Credo che con questi elementi di sfondo i Coen non potevano scegliere un miglior modo per illustrare la favola dell'idealismo o, piuttosto, dell'imprigionamento e della ricerca dell'assoluto. Non sono un critico del cinema, ma un musicista! Il loro film parla di musica e attraversando questo teatro folk i registi puntano il dito sull'endemico dualismo di questo genere musicale, capace delle peggiori brutture (nella sua semplicità, rusticità e anacronisticità) come alcuni dei più bei momenti di magia.

gente a modo e molto ingenua

Allora, come è stata descritta la scena folk degli anni '60, quella che ha visto nascere (tra tanti altri) Bob Dylan? Beh, come un locale poco illuminato, nello scantinato, amministrato da un cerbero senza scrupoli; come un quadro intimista, silenzioso, raccolto, quasi soffocante nella sua reclusione, con dei privilegiati che sembrano fare tutti parte della stessa famiglia. "Degli snob", scriveva Dylan. Colletti rigidi, dalle regole inflessibili. Siete avvisati che se vi mettete a gridare durante uno di questi concerti vi aspetta un pugno all'uscita. Llewyn, l'eroe del film, lo scopre a proprie spese. Occhio, qua non si scherza.

E sulla scena? Ancora meglio. Un vero e proprio freak show sulle origini provinciali e contadine di degli Stati Uniti moderni e della New York all'avanguardia: dai fratelli irlandesi con i maglioni Aran, alle madri "ragazze di campagna", ai giovanotti tutti belli puliti, fino ai boy scout dai melliflui ritornelli. Ma non tutti i personaggi incontrati da Llewyn sono così. Altri fanno più scena sullo schermo, come il jazzman devastato e gigantesco (nella figura di John Goodman), o il "rockettaro" tenebroso con l'aria di quello duro a morire...

E le canzoni invece? Sono delle vecchie cantilene da menestrello ereditate dagli inglesi, dagli scozzesi e dagli irlandesi, rimodernate appena, suonate nella più grande semplicità e sempre sullo stesso giro di accordi. Per quanto riguarda il lato commerciale della musica, niente di nuovo: è un mondo freddo, insensibile e falso. Dischi non venduti, conti in rosso e una mancia per favore. Una sola parola d'ordine per il musicista "tradizionale" che vuole far carriera: il compromesso. "Fatti la barba, fai i cori, ma resta in ombra", così gli dice (più o meno) un manager, che ha in mente le stupide hit radiofoniche prodotte a catena dalle grandi case discografiche in questo periodo proto-pop. Poi si incontrano anche altri personaggi classici dell'ambiente musicale, come il musicista pronto a tutto, incarnato da Justin Timberlake.

I nostri amici folk sono quindi delle persone a modo e molto ingenue, che vivono in un mondo molto statico e che cantano un universo estintosi secoli fa: un mondo di fiabe e di archetipi, di storie vecchie come la terra. "Never new, never gets old, it’s a folk song": calza proprio a pennello!

il folk non è morto

Il nostro Ulisse di questo nuovo episodio della mitologia "coeniana" è il musicista folk Llewyn (Oscar Isaac), che continua a sbattere la testa contro i muri di questo mondo angusto e a incarnare anche, a mio avviso, l'altra faccia di questa monotona medaglietta folk. Perché, oltre ad andare controcorrente, si scontra anche con i propri limiti personali. È questo, dunque, l'"inside" di Llewyn Davis, un musicista che va contro le sdolcinatezze degli amanti del folk che suonano e pensano senza anima.

La traversata di questa valle d'ombra che è il mondo moderno, insensibile alla bellezza, è un percorso difficile. Appartamento? Nessuno. Fidanzata? È complicato. Macchina? Quella degli altri. La neve? Imprevista. Una chiacchierata? Sì, ma potremmo perderci. Non è nemmeno un atteggiamento maturo questo. E dire che molti lo etichettano come "loose". Ignoranza. 

È evidente che nel film il personaggio di Joel e di Ethan Coen non vuole semplicemente esistere, ma vivere. Tutto questo a discapito del proprio benessere, dei suoi amici, della sua famiglia e di tutte le persone ben intenzionate che cercano di calmarlo, farlo sedere e cantare la sua canzoncina folk, come fosse una scimmia ammaestrata, davanti a universitari e uomini d'affari che esclamerebbero: "Ma che talento!". Questo non è folk. In ogni caso non è il suo, non è quello giusto, quello che viene dal cuore. Llewyn vuole sentirsi vivere, bollire, vuole muoversi. A costo di prendere il largo se poi davvero va tutto storto. Tutto, ma non questa schifosa vita moderna!  "Fare the well", recita la sua ultima canzone nel film. 

Per concludere questa lettura "musicale" del film, direi che è sempre la stessa storia, il medesimo ritornello: la vita del musicista che si confronta con la sua musica, la lotta dell'idealista contro la realtà. Sono le sonorità di queste canzoni a tre accordi che, attraverso l'artista che le suona, possono sembrare dei "déjà vu", o una scala che porta in paradiso.

Redeye è un musicista franco-americano il cui ultimo album "End of Season" è tuttora in vendita.

Translated from Inside Llewyn Davis  : that’s all folk