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A Istanbul l’accordo sui migranti tra Ue-Turchia sta diventando un problema

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In Europa si tessono le lodi dell'accordo tra l'Unione europea e la Turchia siglato nel 2016: il deal avrebbe contribuito in maniera significativa a diminuire il numero di arrivi di migranti in Europa. Ma come si valuta il patto dall'altra parte del Mediterraneo? Viaggio a Istanbul, dove la permanenza dei migranti siriani sta cominciando a diventare un problema.

Se il cibo è veramente la bussola per capire gli usi e i costumi di un Paese, passeggiare per il quartiere di Fatih a Istanbul potrebbe ingannare chi lo percorre per la prima volta. Il mercato che si snoda attorno a una delle più grandi moschee della città è infatti colmo di ristoranti siriani, le scritte dei negozi di spezie e cibo sono tutte in arabo e anche l’accento turco e siriano si mescolano.

Dall’inizio della guerra civile nel 2011, sono oltre 500mila i siriani che, secondo le stime ufficiali, sono arrivati a Istanbul. La maggior parte si è trasferita proprio nel quartiere conservatore di Fatih, dove le barriere linguistiche aumentano e la conseguenza che più salta agli occhi è un cambio di morfologia di tutta l’area. «Non è facile parlare con loro - racconta Mustafa Özbek dell’ong İnsani Yardım Vakfı - sono molto restii a parlare alla stampa e, a volte, ci vogliono giorni per entrare in contatto». Il motivo di questa reticenza è semplice: l’immigrazione in Turchia sta cominciando a diventare un problema per la società civile, ma anche e soprattutto, per il governo del presidente Recep Tayyip Erdoğan, il quale, proprio sul dossier migratorio, ha perso le elezioni municipali di Istanbul del 2019 per ben due volte (il voto è stato ripetuto a causa di presunte irregolarità). Più in generale, la questione migratoria è diventata un tema chiave del dibattito pubblico a partire dal 18 marzo 2016, quando Unione europea e Turchia hanno firmato un accordo per gestire i flussi dei migranti.

L’accordo UE-Turchia: da soluzione a problema?

Gli obiettivi e le ragioni dell’accordo sono essenzialmente quattro. In primo luogo, controllare in maniera ordinata il flusso di migranti siriani sulla base di uno scambio “uno a uno”: per ogni persona ricollocata in Turchia, a partire dalle isole greche di Lesbo e Kos, un’altra dovrebbe fare il percorso inverso, destinazione Ue. In secondo luogo e terzo luogo, l’idea è di ottenere un effetto deterrente per le partenze e fornire finanziamenti ai Paesi di transito, come la Turchia, per avviare programmi di integrazione per i cittadini siriani. Infine, un quarto elemento - che però ha subito una brusca frenata dopo la firma - riguarda le facilitazioni funzionali all’ottenimento di visti per l’Europa per i cittadini turchi.

«Ho critiche diffuse a tutti gli elementi», commenta Deniz Sert, professoressa Jean Monnet in Migrazione e mobilità europea presso l’Özyeğin University (l'azione Jean Monnet finanzia la ricerca e l'insegnamento inrenenti l'Unione europea). «La prima riguarda l’obiettivo della deterrenza, visto che i flussi erano già in calo nel 2016. C’è chi afferma che l’accordo avrebbe garantito una diminuzione dei morti in mare. Ma, grazie alle attività di ricerca, sappiamo che, in realtà, il tasso di mortalità è aumentato. Riguardo l’idea dello scambio, poi, sappiamo che molti Paesi europei non accettano più rifugiati. Alcuni stati, per esempio l’Ungheria, non stanno collaborando. Più in generale, il numero dei ricollocamenti è veramente basso. La Turchia ospita, in accordo con le stime ufficiali, 3.6 milioni di siriani, mentre il ricollocamento non ha superato le 20mila persone. La mia ultima critica riguarda i finanziamenti: per un lungo periodo sono stati appoggiati soltanto progetti legati a crisi umanitarie. Ma ormai stiamo entrando nel nono anno dall’inizio dei primi arrivi dalla Siria. E questo approccio non funziona più perché non è sostenibile: senza voler strumentalizzare la questione, i finanziamenti hanno creato una sorta di industria per la gestione dei rifugiat. E molti soldi vengono dispersi nel corso delle varie transazioni».

È proprio in relazione ai finanziamenti che il governo turco si sta giocando la partita più importante. Ankara lamenta la mancanza di sostegno economico da parte dell’Unione europea e ha, di conseguenza, cominciato a nutrire dubbi sull'utilità dell'accordo. Secondo alcuni analisti intervistati da Cafébabel (che hanno richiesto l’anonimato), Erdoğan sarebbe stato contrario all’accordo con Bruxelles fin dal principio, tanto che il testo finale venne firmato dall’ex Primo ministro, Ahmet Davutoğlu.

Che fare?

Oggi le soluzioni messe in campo sono poche e confuse. Ormani, la Turchia ha chiuso il confine meridionale con la Siria e bloccato, a est, le partenze attraverso il Mediterraneo in direzione della Grecia. Gestire 3.6 milioni di rifugiati non è semplice, soprattutto se più di 500mila persone si trovano nella stessa città: secondo stime non ufficiali, Istanbul è arrivata a contare 18 milioni di residenti in totale.

Lo scorso luglio il governo ha avviato un programma di ricollocamento interno per i rifugiati siriani registrati in uno dei centri per l’immigrazione. «In funzione delle elezioni municipali, l'esecutivo ha cercato soluzioni per rimandare i rifugiati nei luoghi dove avevano fatto il loro ingresso nel Paese», spiega İzzet Şahin, membro del consiglio del direttivo incaricato della diplomazia umanitaria presso l'ong İnsani Yardım Vakfı. «Ma le ragioni per cui queste persone si trovano a Istanbul sono economiche e lavorative. Le conseguenze della decisione del ministero dell’Interno sono state negative: i migranti sono stati costretti a spostarsi. Ma visto che poche persone sono state rimpatriate in Siria, la maggior parte è semplicemente finita in altre città». In ogni caso, i numeri dell’operazione sono piccoli rispetto al totale dei residenti siriani a Fatih, un quartiere che si potrebbe definire “una Dublino turca”. In aggiunta, ci sono altri problemi, come chiarisce sempre Şahin: «Le nuove generazioni hanno ormai imparato il turco. Per loro sarebbe difficile tornare in Siria e avvicinarsi di nuovo all’arabo».

Istanbul (cc) Matteo Garagavoglia
Istanbul © Matteo Garavoglia

In tutto ciò, allargando la prospettiva, la percezione originaria dei cittadini turchi era che i siriani si sarebbe fermati per qualche anno - una sensazione giustificata dalla concessione di permessi di residenza temporanei da parte dello stato. Con il passare del tempo, però, la stanzialità è diventata un problema: «Qui il fenomeno migratorio non è mai stato presentato in termini di ‘crisi’», commenta Deniz Sert. «Il vocabolario di riferimento è molto diverso da quello europeo. Inizialmente queste persone erano considerate come degli ospiti, ma con il passare del tempo la pazienza dei turchi è diminuita. Oggi cominciamo a osservare sentimenti anti-migranti e anti-rifugiati».

Le criticità di una safe zone in Siria

Oltre ai 3.6 milioni di rifugiati siriani, si stima che la Turchia stia ospitando anche altre migliaia di persone con provenienza diversa. Coi confini bloccati, il governo turco punta a un’unica soluzione: creare una safe zone (“zona di sicurezza”) tra Siria e Turchia per trasferirvi fino a 2 milioni di rifugiati.

Gli analisti intervistati da Cafébabel hanno però sottolineato che il progetto - che prevede la costruzione di edifici e, di fatto, di nuove città lungo una striscia larga poco più di 30 chilometri - potrebbe avere un costo superiore ai 20 miliardi di euro. Per questo motivo Erdoğan sarebbe intenzionato a creare un tavolo coi partner esteri per chiedere un sostegno economico. Questa soluzione allontanerebbe anche i curdi dell’YPG - considerati un “gruppo terroristico” da Ankara - dal confine turco, come rivela l’operazione militare nel nord-est della Siria cominciata nell’ottobre 2019. «Se fossi un leader europeo punterei ad avere un’influenza in quella zona, perché allo stato attuale nessuno - né gli accademici, né i giornalisti - sanno veramente cosa stia succedendo laggiù», è il commento finale di Deniz Sert.


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30 anni di programma Jean Monnet © Programma Jean Monnet

La serie AcadeMy è stata realizzata nel quadro della celebrazioni dei 30 anni del programma Jean Monnet con il sostegno della Commissione europea. L'azione Jean Monnet finanzia la ricerca e l'insegnamento inrenenti l'Unione europea. Per maggiori informazioni sugli obiettivi e il ruolo del programma Jean Monnet si rimanda al sito ufficiale dell'Unione europea.