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24 ore a Kabul

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Eleonora Palermo

La vita quotidiana di un’espatriata in Afghanistan, innamorata del Paese. Nonostante i proiettili e il divario culturale. Per comprendere meglio il lavoro degli “umanitari”.

Quattro e mezza di mattina: la sveglia è all’alba ed è per voce del muezzin. Ero partita per sei mesi di “avventure” nella capitale afghana per conto di una organizzazione non governativa francese, dopo scialbi studi in legge. Ma due anni dopo sono ancora là, innamorata del Paese. Un po’ meno al mattino presto però.Il programma della giornata prevede di visionare un progetto di microcredito nella campagna nei pressi di Kabul, vale a dire quattro ore di viaggio su una strada dissestata e l’impressione di dover affrontare un match di boxe contro l’automobile. Il mio aiutante ha deciso di omaggiarmi di un corso ad hoc sulla poesia afghana, seguito da un elenco dettagliato dei versi dal fronte degli ultimi vent’anni. Per questo certi funzionari internazionali trovano assolutamente normale dire che l’anno in cui vivono i musulmani – Naw Roz Tabrik, il 1384 – corrisponde al loro livello di sviluppo intellettuale e sociale… piuttosto eloquente, no?

Un compito pesante

Arrivata al villaggio, ricevo accoglienza in pompa magna dai colleghi afghani. Mi piego al rituale dei saluti, imperativo categorico di ogni incontro: «Come va? State bene? La salute? E il vostro umore? Tutto bene in famiglia? I bambini?…». E cominciamo il pranzo, su dei cuscini per terra. Il menu prevede: riso, una fetta di carne bagnata nell’olio, fagioli rossi e uva. È previsto un incontro con numerosi funzionari del luogo e le famiglie dei beneficiari del programma, al fine di valutare l’impatto del progetto di microfinanza che abbiamo realizzato.

È piuttosto frequente sentire i nostri ospiti lamentarsi per ore del fatto che le ong non intraprendano abbastanza iniziative: «visto che concedete microcredito, non potreste anche costruirci un pozzo e comprarci un trattore?». Ci sono due modi di vedere le ong in Afghanistan: da un parte tutti si lamentano che la ricostruzione del Paese non avanzi abbastanza veloce, denunciano la corruzione di alcune organizzazioni (anche perché spesso delle ditte di costruzione assumono lo status di ong per ottenere più facilmente dei contratti di finanziamento e non pagare le tasse), ma tutto sommato apprezzano l’ong di turno che ha aggiustato il canale d’irrigazione. Dall’altro lato, però, ci sono i telebani e Al Quaeda che si interrogano sulla presenza della comunità internazionale in tutti i problemi afghani, e all’occasione non si risparmiano dall’uccidere degli membri delle ong.

Nonostante tutto, però, certe lamentele sono legittime: l’arrivo massiccio di ong nel 2002 ha sollevato notevoli problemi di coordinamento; inoltre è difficile per un afghano che esce da venticinque anni di guerre e miseria vedere così tanti stranieri girare su auto di grossa cilindrata con l’aria di vivere felici. Senza però che questi siano capaci di rispondere alle aspettative della popolazione.

Le azioni umanitarie: un business come un altro

Alle tre del pomeriggio arriva il quindicesimo tè offerto della giornata, il quinto accettato. È difficile rifiutare l’ospitalità degli afghani. Le donne mi chiedono regolarmente se sono sposata e quando rispondo di no, mi promettono di pregare affinché trovi presto marito: «alla sua età – ventisette anni – è ora!». Quasi evidente, in un paese dove l’aspettativa di vita è sui quarantadue anni.

Ci affrettiamo a rientrare a Kabul prima di sera per una cena con un finanziatore del nostro progetto. Obiettivo: essere sempre cordiale e d’accordo con lui. Ci sono poche alternative: se vengono meno i finanziamenti all’ong, si perde il lavoro.

Quello umanitario è diventato un mercato: le ong devono essere competitive, redditizie e in costante crescita. Questa evoluzione, dovuta negli ultimi anni ai finanziatori e all’opera in generale, ha permesso di promuovere la professionalità del settore, che era ancora all’età della pietra. I volontari sono stati sostituiti da esperti che hanno fatto del soccorso e dello sviluppo il proprio mestiere, rendendo così l’azione umanitaria più efficace. Tutte le ong di medie dimensioni (cioè la maggior parte) devono o ingrandirsi e professionalizzarsi in modo radicale. O morire. I finanziatori, dal canto loro, chiedono loro di fare molto, mentre mettono a loro disposizione pochi mezzi.

Sicurezza, alcool e pallottole

Così per gli “umanitari” la vita non è più difficile che giusta, dopo la fine della guerra: le docce sono state sostituite da secchi d’acqua e c’è elettricità corrente. Quanto agli stranieri delle Nazioni Unite, i loro quartieri sembrano delle confortevoli isole occidentali nel bel mezzo di un paese in briciole. Si può addirittura andare al ristorante tutte le sere, infrangendo qualche regola di sicurezza. Ma le possibilità di svago restano limitate: una serata al cinema all’aperto con la gioventù internazionale di Kabul – che vive come a New York nonostante il velo e la cultura locale – è interrotta da spari. Tutti scappano nei bunker: si rischia più di morire di claustrofobia che di una pallottola vagante. E così ci si consacra completamente al lavoro. Oppure all’alcol.

Domani alle quattro e mezza la chiamata alla preghiera suonerà di nuovo. Perché resto? Per continuare a imparare questa cultura così complessa, contraddittoria. Ma così sorprendente. Per arrivare a “leggere” la fine di questo romanzo ricco di suspence che è la ricostruzione di questo Paese.

Translated from 24 heures à Kaboul