1979-2003: Un potere estraneo e lontano
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Oggi come ieri, il “potere” iraniano è lontano dal suo popolo e soprattutto dalle giovani generazioni. Gli ayatollah sono destinati a fare la fine dei Pahlavi?
La rivoluzione iraniana del 1979 è stata la rivolta di un popolo contro un potere che non lo rappresentava. Una tale lettura, che all’epoca venne compiuta soprattutto nei circoli delle sinistre europee, può apparire oggi anacronistica. Essa presenta invece un grande merito: pur non sminuendo il ruolo assunto dal clero sciita, ne storicizza l’azione. La situazione socio-economica del Paese alla fine degli anni Settanta diviene in tal modo un elemento indispensabile per comprendere gli eventi. La creazione della “Repubblica islamica” diviene il frutto dei rapporti di forza post-rivoluzionari, piuttosto che il fine cercato e voluto dagli iraniani. Conseguenza di una tale storicizzazione: gli eventi del 1979 potrebbero ripetersi, se si ripresentassero le condizioni. Magari, in questo inizio del XXI secolo.
L’‘alleanza tra la moschea e il bazar’
La caduta della dinastia Pahlavi inizia con la crisi petrolifera del 1973-1974. Un’opposizione al potere autoritario dello sciah esisteva anche prima di questa data, come dimostra l’afflusso verso Parigi di oppositori e nemici del potere, condannati all’esilio. Questo biennio ha avuto la funzione di generalizzare il malcontento, associandovi le classi medie urbane.
L’aumento del prezzo del petrolio deciso dall’OPEC dopo la guerra dello Yom Kippur generò delle forti entrate in Iran. Una cattiva politica economica non seppe sfruttare queste ingenti risorse in uno sviluppo per il Paese, trasformandole piuttosto in una fonte di inflazione e rivelando quelle che sarebbero diventate le cause profonde della rivoluzione. Da un lato, lo sciah venne percepito sempre di più come uno strumento nelle mani di poteri stranieri, soprattutto statunitensi. Dall’altro, un gruppo ristretto di uomini d’affari iraniani si era fortemente arricchito, dimostrandosi l’unico beneficiario del potere autoritario del monarca. Gli intressi dell’Iran e del suo popolo erano, in entrambi i casi, sacrificati ad interessi di gruppi particolari, esterni e interni, che facevano capo allo sciah. Il “bazar”, ossia i mercanti e la borghesia urbana, voleva cambiamenti.
La “moschea”, dal canto suo, accusava lo sciah di non rispettare il carattere islamico della popolazione iraniana, oltrechè di reprimere il clero sciita. Il massimo affronto arrivò quando Reza Pahlavi si fece incoronare re di Persia nelle rovine di Persepoli. Base dell’Iran moderno era dunque la cultura persiana, non quella islamica: Reza Pahlavi aveva marcato la distanza dai religiosi.
Il terreno per l’alleanza tra i due gruppi era fertile.
Un potere senza legittimazione
La cerimonia di Persepoli, di eccezionale sfarzo, aveva per la verità marcato anche la distanza dello sciah dal suo popolo. Il suo potere si accostava sempre più ad origini divine, il che, nella seconda metà del XX secolo, appariva difficilmente sia credibile che accettabile. Tanto più da parte di una popolazione che soffriva condizioni economiche difficili e una dura repressione. Nel 1977, Amnesty International denunciò le ripetute violazioni dei diritti umani in Iran; nello stesso anno, il Presidente americano Carter, che della difesa dei diritti umani stava facendo un’arma dello scontro bipolare con l’URSS, chiese apertamente allo sciah dei miglioramenti. Le aperture che questi si vide costretto a fare divennero la breccia attraverso cui passò la rivolta contro un sistema chiuso, distante e corrotto, un sistema i cui valori e le cui manifestazioni erano estranei alla vita del popolo iraniano.
Oggi, l’Iran è governato dalla stessa alleanza tra “moschea” e “bazar” che guidò la rivolta allo sciah. Entrambi i gruppi, però, si sono modificati. In questo processo, essi sono divenuti assai simili ai gruppi di potere che contribuirono a scacciare. Gli antichi “bazaristi” hanno appoggiato un “liberalismo di Stato” che gli ha garantito un continuo arricchimento, mentre la classe media urbana ha continuato a soffrire elevate tasse e una costante inflazione. Le “moschee” e la loro guida, poi, sono poi diventate fonte unica di legittimazione. Il sistema della wilayat al-faqih dà alla Guida Suprema un ruolo talmente elevato da portarla, quasi naturalmente, a perdere il contatto con la popolazione. La guerra contro l’Iraq, poi, ha permesso l’utilizzazione di metodi spicci per disfarsi degli altri gruppi di opposizione e per esercitare un controllo ferreo su ogni settore della vita del Paese, a partire dall’istruzione e per estendere un regime poliziesco sulla popolazione. L’Iran di oggi, quanto a diritti umani, non ha nulla da invidiare a quello dello sciah.
Tutto cominciò con gli studenti per le strade...
Nel 1977-1978, i primi a scendere per le strade a protestare furono gli studenti. La polizia dello sciah represse queste manifestazioni. Massacri come quello di Qom, nel gennaio 1978, segnarono punti di non ritorno nell’opposizione degli studenti al regime monarchico.
Il 9 luglio 1999 potrebbe essere la stessa cosa. Gli studenti iraniani avevano offerto una chance al regime, credendo in un suo esponente, Mohammed Khatami, e nei suoi progetti di riforme. Il regime, però, sembra non riformabile dall’interno. Il “potere” è ancora una volta lontano, distante, estraneo ai bisogni della popolazione. Il 60% di questa è nata durante la guerra con l’Iraq e ha conosciuto subito la miseria che a una guerra è associata. Insieme, ne ha conosciuto l’aspetto interno, ossia la repressione e la chiusura. Essa non vede più la causa della sofferenza nell’eccessiva apertura dell’Iran agli interessi esterni, come nel 1977-1978. Al contrario, la vede nell’eccessiva chiusura del regime all’esterno.
Nell’epoca dell’interdipendenza e degli scambi, comunque, nessun regime è impermeabile. Lo sciah dovette fare i conti con la rete di comunicazione e organizzazione costituita dalle moschee. Gli ayatollah hanno di fronte le università e le reti create dalla tecnologia moderna e da Internet, mentre all’esterno la strategia di pressione di Bush potrebbe ricordare quella di Carter. All’appello manca l’esasperazione di altri gruppi interni.