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15. Ilb, il Festival di letteratura e la Nuova Berlino

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Recensioni 2.0

„Il tempo è una macchina, che riduce la vita in frantumi. Questo ho imparato scrivendo il mio libro, ma con l'esperienza si impara anche, che il tempo è talvolta ridotto in frantumi dagli uomini“.  David Grégoire van Reybrouck - „Congo“ (in Italiano da Feltrinelli).

Oramai dal lontano 2001 il festival internazionale di letteratura anima per oltre due settimane l'autunno della „HauptStadt“ con manifestazioni sparse per tutti i distretti centrali, mantenendo come di consueto il proprio centro alla „Haus der Berliner Festspiele“ anche per il 2015. Come in altre edizioni il taglio è stato altamente politico, con molto spazio lasciato al romanzo e alla saggistica impegnata e tuttavia grande attenzione anche a generi meno commerciali, quindi eventi dedicati alla poesia, alla letteratura giovanile o all'arte dell'illustrazione. L'organizzatore e sponsor principale della manifestazione è stato ancora una volta la „Peter-Weiß-Stiftung“, accompagnata alla novità del Patrocinio Unesco.

Le grandi star della letteratura mondiale sono state poche e ben distribuite lungo tutto l'arco della manifestazione. Si è iniziato col discorso inaugurale di Javier Marìas, in città per presentare il suo ultimo romanzo (per l'Italia „Così ha inizio il male“, Einaudi, 2015), si è proseguito con Roddy Doyle, Ma Jiàn, con l'anteprima tedesca di Banana Yoshimoto („Il Lago“, Feltrinelli 2015) e concluso con Zeruya Shalev e il suo „Dolore“ („Schemrz“, Berlin Verlag 2015). Il Festival tuttavia si protrae ad ottobre anche con altre manifestazioni „off“ e terminerà definitivamente solo il 21 novembre con il nuovo romanzo di Salman Rushdie (Two Years Eight Months and Twenty-Eight Nights, Random House 2015). L'atmosfera come sempre buonissima e il pubblico molto partecipe a qualsiasi genere letterario proposto, quest'anno ha visto focalizzare l'attenzione ai temi politici attuali con la presenza di autori giunti dai luoghi più caldi del mondo. I temi più affrontati? La situazione in Siria, in Afghanistan, in nord Africa, la guerra in Ucraina e nei Balcani, ma soprattutto si è parlato di rifugiati in Europa, del numero sempre crescente di morti nel Mediterraneo, della crescente minaccia del populismo nella politica, del terrorismo di matrice religiosa, con la città che vive realmente e nella propria quotidianità e in prima linea, la gestione delle centinaia di profughi in fuga dalla miseria e dalla guerra in arrivo ogni giorno.

Un'inquietudine palpabile, una sensazione di colpevole impotenza sembra coinvolgere pubblico, autori e organizzatori su questi temi. „Una lingua è il luogo da cui si vede il mondo e in cui si tracciano i confini del nostro pensare e sentire. Dalla mia lingua si vede il mare. Dalla mia lingua se ne sente il rumore, come da quella di altri si sentirà il rumore della foresta o il silenzio del deserto. Perciò, la voce del mare è stata quella della nostra inquietudine“, scriveva Vergílio Ferreira. È proprio questo che nei giorni del festival si è fortemente avvertito. La lingua -qualunque lingua-, è in fondo soprattutto uno spazio. Una casa da condividere o una frontiera da attraversare, un ghetto in cui rinchiudersi o un altrove in cui limitarsi a transitare. Si pensi, per esempio, ai suoni e alle parole in cui abita la nostra identità collettiva, veri e propri luoghi dove si radica il sentimento di appartenenza a quel territorio dell’anima che chiamiamo «patria», oppure alle barriere, spesso invisibili, che quegli stessi suoni e quelle stesse parole innalzano all’interno – oltre che all’esterno – della nostra ecumene linguistica, trasformando la distanza e la differenza in esclusione.

I rifugiati nei giorni del festival sono arrivati in città, nuovi ospiti come tutti quanti questi scrittori e giornalisti, ospiti e testimoni al contempo. Ne arrivano oltre 400 tutti i giorni, ed è solo l'inizio. Si vedono, si incontrano, si riconoscono negli sguardi, nei colori, nei vestiti, nel cammino ad ogni angolo di strada. Non sono solo racconti. C'è chi aiuta, chi osserva, chi nota la loro confusione e prova a comprendere, a offrire informazioni a chi spesso non comunica nemmeno in inglese. Naturalmente c'è anche chi disprezza. Gli stupidi, gli arroganti, gli ignoranti e gli smemorati. E ci chiediamo chi sarebbe diverso e dignitoso dopo aver attraversato l'inferno. In questi giorni si è vissuto con queste situazioni negli occhi e alla sera, alla letture si è ascoltata la testimonianza di odio, violenza, ingiustizia di questi autori, la si è toccata parzialmente con mano. Non era mai successo con questa efficacia nelle edizioni precedenti. C'è chi di questo ha paura.

Banana Yoshimoto nel suo intervento, tra le pagine del nuovo romanzo, ha ben definito il processo di guarigione dopo un trauma, come un'“intimità interrotta“. „Il tempo non passa, resta il disorientamento, l'indecisione, il mal di vivere. La guarigione necessita di rituali. La morte non si accetta, non si placa il dolore aspettando“, ci dice. E dopo ogni evento del festival, alla stazione della metro, lungo le strade, ai mercati, il cambiamento rispetto al prima si è notato con forza. La città era distante da ciò che raccontava nelle precedenti edizioni, l'Europa più sicura. Ma nell'udire queste parole in queste stesse serate, poi si incontravano sulla via di casa, madri e padri con bambini in braccio, giovani donne a richiedere informazioni a gesti, bambini vivaci e rumorosi in luoghi per loro completamente nuovi. Ricordo in particolare quella serata del dopo Yoshimoto. Un giovanissimo iraniano nella metro che si era perduto. Poco vestito e con grosse difficoltà di comunicazione, fu aiutato da un tedesco ad orientarsi. Gli ha chiesto un indirizzo, controllato la mappa della città da un cellulare e lo ha accompagnato personalmente. Il ragazzo aveva la confusione nello sguardo e una piccola valigia mal richiusa. Solo questo. I tempi in cui viviamo erano tutti in quegli occhi.

Al di là dell'ironia istrionica di Marias, o la spontanea simpatia molto giapponese di Yoshimoto, che fa foto ricordo perfino durante la presentazione o la lettura del suo ultimo romanzo, ciò che si apprende da questa edizione è purtroppo il sapore della tragedia, di un mondo che ha spremuto le ideologie o le religioni fino all'osso, che decapita e appende personalità della cultura alle colonne di città simbolo di cultura antica, che strazia famiglie, calpesta i diritti delle donne e costruisce gabbie mostruose per l'inferno predicando il paradiso.

Quello del nostro presente è un mondo in cui non stare tranquilli. C'è chi dice un nuovo stato di guerra, più raffinato e più sottile per quanto riguarda i paesi occidentali e in particolare il nostro continente, guidato da una strategia della paura, da banche e finanza. Quella di cui gli ospiti protagonisti hanno portato testimonianza, non è da tacere e nemmeno da sottovalutare. Samar Yazbek dalla Siria (The Crossing: My Journey to the Shattered Heart of Syria, 2015), Elif Şafak dalla Turchia (La Citta' ai Confini del Cielo Rizzoli, Milano 2014), Laura Restrepo dalla Colombia (Hot sur, Planeta 2012), Pablo Gutiérrez dalla Spagna (Los Libros Repentinos, Seix Varral 2015), la giornalista Mona Eltahawy dall'Egitto e il Premio Nobel Wole Soyinka dalla Nigeria, col suo discorso sul terrore e sulla generalizzata omofobia („Sul Far del Giorno“, Frassinelli 2007), ci invitano a non tacere di fronte all'odio e alla violenza, in ogni nuovo giorno.

"Todos temos um lugar onde a vida se acerta... o meu lugar não é melhor do que o teu. Os nossos lugares não podem ser comparados porque são demasiado íntimos... não vale a pena explicar, porque ninguém vai entender. La palabra no aguenta o peso de esta verdade."

(da "Galveias", José Luís Peixoto).

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