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"Vivo con i genitori perché...": rispondono gli under 35

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societàPalermo

Non è proprio fanalino di coda, ma nella graduatoria dei paesi europei in cui i giovani vivono ancora con i genitori l'Italia è indietro. Alla base del fenomeno ci sono davvero solo ragioni economiche? Lo abbiamo chiesto ad alcuni ragazzi under 35

Gli italiani? Esperti nell’arte di arrangiarsi, nel trovare soluzioni creative per spuntarla nelle avversità, nell’adattarsi a qualsiasi situazione fino essere pronti a emigrare, come fecero i nostri padri con le novecentesche valigie di cartone, quando una soluzione lavorativa soddisfacente in patria proprio non la si trovava. Questo tratto identitario che ci ha fatto superare guerre, dopoguerre, altalene politiche e corsa all’Euro, forse gli under 35 lo stanno pian piano smarrendo. Secondo i dati Eurostat 2015, infatti, sono quasi sette milioni i giovani italiani tra i 18 e i 35 anni (non sposati) che vivono e mangiano con i propri genitori.

Non proprio una lezione di emancipazione e intraprendenza a scandinavi e nord europei, che restano con i genitori nella proporzione di un giovane ogni venticinque. Nei paesi PIGS (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna), questo rapporto si avvicina a un giovane su due.

La prima cosa che in automatico si pensa, è che il fenomeno può essere spiegato economicamente, con buona pace di quei ministri della repubblica italiana che in passato hanno definito “mammoni” e “bamboccioni” coloro che restano legati a mamma e papà. La macroeconomia ci viene in aiuto, e nei paesi con il pil più basso e ad elevata disoccupazione, troviamo in effetti una maggiore percentuale di giovani che restano con i genitori.

Cafebabel ha raccontato da poco dei giovani che vivono bene in Olanda: se si è in una famiglia che ha un reddito annuo sotto i 50 mila euro, rimanendo con i genitori si ricevono 80 euro mensili dal governo olandese, mentre andando a stare per conto proprio si ricevono 300 euro mensili, un incentivo non a disposizione degli under 35 italiani. Eppure, stando alle testimonianze che abbiamo raccolto intervistando giovani siciliani (i giovani del sud che stanno con i genitori raggiungono percentuali maggiori rispetto a quelli del centro e nord Italia), non tutta la questione ruota intorno ad aspetti economici, con una conferma indiretta che arriva dai dati Istat: a casa con i genitori sta anche chi un lavoro ce l'ha, e ciò accade in percentuale addirittura maggiore rispetto ai disoccupati.

Genitori protettivi?

Sophia, 21enne, studentessa di Scienze della Comunicazione per la Cultura e le Arti, fa parte della fascia di età in cui la percentuale di giovani che vive con i genitori sfiora il 90%. In realtà, anche se per lavoro, Sophia ha già una qualche esperienza di vita in solitario: «ho fatto l'animatrice presso un villaggio turistico sito a Tropea, una delle esperienze più belle della mia vita. In un villaggio i ritmi sono serrati e si ha veramente pochissimo tempo persino per dormire. Quando non lavoravo e non dormivo, pulivo la camera e facevo il bucato, per lo più di notte, prima di andare a letto». Se da un lato Sophia spiega candidamene di restare con i genitori per ragioni economiche, dall’altro sostiene che «in Italia sicuramente, rispetto agli altri paesi del panorama europeo, c'è una componente genitoriale protettiva più accentuata. In Germania o in Inghilterra, per esempio, i ragazzi già a 16 anni preparano le valigie e vanno via da casa».

Chi resta con i propri genitori, tuttavia, non vive certamente nell’ozio, almeno Sophia: «Lavo i piatti, passo lo straccio, l'aspirapolvere, faccio il bucato. Insomma, tutto il necessario. I miei genitori lavorano tutto il giorno ed io e le mie sorelle cerchiamo di fare del nostro meglio». Quasi sicuramente nei prossimi anni vivrà da sola per frequentare un master lontano dalla Sicilia, ma la sua testimonianza fa emergere un paio di spunti interessanti: il primo è che nel frattempo cerca di godersi le piccole comodità quotidiane che i suoi genitori le garantiscono; il secondo è che, nel paese del lavoro discontinuo, anche le esperienze di vita lontano dai genitori diventano per forza di cose discontinue.

Esperienze di vita discontinue

La conferma arriva da Gaetano, 34 anni, tornato con i genitori dopo un anno vita di coppia in una casetta immersa in un paesaggio rurale, un’esperienza molto libera, quasi country. Le condizioni lavorative e affettive sono mutate e ora Gaetano, pur lavorando part-time, è tornato con i genitori. «La vera ragione per cui vivo con i miei è economica, ma è bello averli accanto e vederli. Bello e difficile: vivere con i propri genitori vuol dire anche vederli invecchiare, perdere un po’ di salute e lucidità». Pensa che gli capiterà di andar via, e non necessariamente da sposato, ma nel frattempo si sente supportato dai suoi genitori e prova a supportarli a sua volta.

Come Valentina, 35enne medico in un ospedale palermitano. Il suo contratto a tempo indeterminato sembrerebbe un biglietto di sola andata per una vita in autonomia, tanto più che in questa fascia di età i giovani che vivono con i genitori sono meno del 30%, e che le ragazze che vivono con i genitori sono meno dei ragazzi (55,5% contro 68,2%). Ma Valentina vive con sua mamma perché «dopo aver vissuto da soli si apprezzano gli affetti, ed è bello tornare a casa la sera e trovare qualcuno. Ho lavorato per un anno a Perugia, dalla mattina fino alle 19 in reparto, poi a casa a fare il bucato, preparare la cena e vedere qualche serie in tv interrotta da tante telefonate. Oggi mi commuove trovare la colazione pronta».

La cosa più positiva resta l’affetto che si riceve, l’avere persone con cui condividere momenti belli e brutti. Quella negativa è la perdita di un po’ d’indipendenza: «devo rispettare orari imposti dagli altri e non posso vivere come se si fossi sola, ma sono piccoli incidenti che per il momento mi fanno stare bene dove sono». Chiediamo a Valentina se secondo lei c’è un qualche fatto culturale (che le statistiche non colgono) sul perché in Italia si resta così a lungo con i genitori. Secondo lei «nelle famiglie siciliane c’è una ‘componente conservatrice’ verso i figli, anche adulti, molto meno presente all’estero e anche nel Nord Italia, dove Valentina ravvisa strutture familiari diverse e un’indipendenza maggiore».

Tabù familiari

C’è poi Teresa, 29enne, che dopo aver vissuto in uno studentato per anni e trascorso un anno a Dublino per un progetto di volontariato all’estero, lavora presso una comunità per minori abbarbicata in un paesino, lo stesso dei suoi genitori. Il lavoro è sotto casa e al momento non è andata a vivere da sola, il che, in un centro così piccolo, coinciderebbe con l’andare a stare alla porta accanto. «In realtà ci ho pensato, ho progettato di andare a vivere con un’amica, ma ai miei familiari sembrava un po’ insensato». L’aiuto economico che i genitori le hanno concesso per gli studi fuori sede, le è di fatto negato per abitare da sola. «Tra i lati positivi ci sono l’affitto e le utenze da non pagare e il lusso di poter saltare qualche lavoro domestico quando rientro troppo stanca, ma la mancanza d’indipendenza può pesare molto, specie per chi non ha un concreto piano per ritrovarsi, nel breve periodo, a vivere da soli».

Che qualche responsabilità nella mancata emancipazione dei giovani italiani possano avercela alcuni retaggi culturali e meccanismi familiari, lo conferma la storia di Gabriele, che ricorda quando, a 24 anni, decise di andare a vivere da solo pur trovandosi nella stessa città dei genitori, Palermo. «Stavo benissimo con i miei genitori, ma lavorando full time con contratto a tempo indeterminato e studiando contemporaneamente, iniziai a frequentare una casa affittata da alcuni amici studenti. Mi piaceva il clima che si respirava, la condivisione, le visite improvvise di nuova gente, così decisi di vivere questa sfida con me stesso».

Quale fu la reazione dei genitori di Gabriele? Non lo andarono mai a trovare e quasi nascosero la sua scelta a parenti e conoscenti. Di fatto l’avvenimento divenne un tabù: «Non mi aspettavo questa reazione da parte loro. Pensavo avessimo un rapporto maturo, ma forse la maturità non c’entra. La mia scelta fu vissuta come uno ‘sgarbo’ fatto alla famiglia. Si vergognarono della mia scelta. La buttarono sul fatto che avrei sprecato inutilmente soldi che potevano tornarmi utili in un altro modo, ma penso che c’entri di più l’istinto di protezione, di controllo, di mantenimento del proprio ruolo di genitore».