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Viva la flessibilità!

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La precarietà è attaccata da tutti i fronti, ma siamo così sicuri che i giovani vogliano tutti un contratto fisso appena usciti dall’università?

Il lavoro flessibile, a tempo determinato o part time è spesso oggetto di una serie di critiche, spesso ingiuste o superficiali. Questo tipo di occupazione viene percepita come sinonimo di sfruttamento del lavoratore da parte di un sistema economico sempre più globalizzato. Le agenzie di lavoro interinale vengono criminalizzate a priori, colpevoli di fare solo gli interessi delle aziende e mai quelli dei lavoratori. Ma è tutto vero?

Il bicchiere mezzo vuoto della “precarietà”

No, non vogliamo smentire o confermare queste accuse, ma fornire una diversa chiave di lettura: più moderna e ottimista sugli sviluppi del mercato del lavoro europeo. Definire la situazione dei giovani lavoratori solo come “precarietà” infatti significa vedere solo il bicchiere mezzo vuoto.

Innanzitutto siamo convinti che un mercato del lavoro flessibile richieda dei lavoratori flessibili: mentalmente (ad accettare le nuove sfide) e fisicamente (a tenere conto della crescente mobilità del lavoro). Per cavalcare la globalizzazione e non farsi travolgere è utile adeguarsi per cercare di sfruttare le occasioni che offre l’economia moderna. La globalizzazione infatti non è solo un vincolo: un mercato più aperto, in cui le imprese sono sempre più internazionalizzate per via del boom degli investimenti esteri diretti, offre più opportunità al lavoratore predisposto ad accettare le nuove sfide del futuro. L’apertura dei mercati e la caduta delle barriere economiche è un segno di libertà: la deregulation burocratica ci permette di muoverci come e dove vogliamo entro i confini europei. Questo significa che una volta che abbiamo imparato le lingue, presupposto fondamentale per qualsiasi giovane che ambisca a fare carriera da qualsiasi parte in Europa, abbiamo le stesse chanche di uno spagnolo a Madrid o di un olandese di Amsterdam. Anzi, forse qualcuna in più. Con la conseguenza che essere “straniero” oggi diventa una risorsa. E allora cosa fate ancora lì? Lasciate a casa i vostri timori e godetevi le opportunità che i nostri padri nemmeno si sognavano di poter avere.

Il bicchiere mezzo pieno della “flessibilità”

Il lavoro a tempo determinato è una delle forme più comuni della nuova economia mondiale, è inutile guardare con nostalgia al passato: è molto meglio invece tenersi pronti per non farsi cogliere di sorpresa. Se è vero che un contratto a breve termine ci rende più insicuri, questa è comunque solo una faccia della medaglia. L’altra è che la flessibilità ci dà la possibilità di collezionare una serie di esperienze diverse, di avere un curriculum vitae molto differenziato e – perché no? – di saziare la nostra voglia di viaggiare. Questo tipo di occupazioni infatti non ci legano ad alcun luogo, non ci cristallizzano in una realtà. Ci consentono sempre una fuga, una nuova partenza. Per i neolaureati questa forma di lavoro meno impegnativa – e spesso anche meno remunerativa, questo va detto – può svolgere una funzione importante: aiutare a individuare meglio il campo in cui intendono lavorare. Il che non è un capriccio ma un’esigenza, dovuta anche alla crescente specializzazione degli studi. Scegliendo corsi di studio che abbracciano sempre più discipline, infatti, gli studenti si troveranno sempre più spesso davanti alla difficoltà di scegliere quale strada intraprendere. In questo scenario un’esperienza grazie a un contratto a tempo determinato può essere la giusta dimensione per rendersi conto di quale sia il settore che faccia al proprio caso.

Mercato più libero = più libertà

Sembrerà una banalità ma il lavoro flessibile ha anche un altro vantaggio, apparentemente futile: maggiore tempo libero, che aumenta la qualità della vita e che può essere sfruttato per svolgere parallelamente un altro lavoro, magari più gradito ma non altrettanto retribuito. Molte professioni necessitano infatti di una notevole gavetta che spesso significa lavorare gratis, e prepararsi per mesi o anni al lavoro che si desidera davvero fare. E allora quale offerta migliore di un lavoro di sei mesi che consenta nel frattempo di guadagnare qualche soldo mentre parallelamente ci si forma in un altro campo che si ritiene più interessante e adatto alle proprie caratteristiche?

Nonostante ciò i prevenuti continuano a guardare con perplessità a questa possibilità, a sognare un lavoro garantito che non esiste più, ad avere nostalgia per un’epoca che è passata. Hanno ragione loro o siamo noi ad essere degli ingenui? Forse la verità sta come sempre nel mezzo, ma una buona dose d'ottimismo non nuoce mai.