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Testimonianza dal Messico: la febbre suina che arriva dall’Asia

Published on

Story by

Puri Lucena

Translation by:

Manuela Manelli

Ogni giorno migliaia di persone prendono la metro di Città del Messico. Io, che vivo in questa immensa città da due anni e mezzo, ho smesso di prenderlo già da una settimana: troppa gente, quindi troppo rischio. Testimonianza da una spagnola in Messico.

La febbre suina ci è entrata nei pori della pelle. Quella che ogni cinque minuti laviamo per evitare ogni possibile contagio: lavarsi le mani è il miglior modo per evitare di contrarre il virus, che per il momento ha causato morti solo in Messico. L’unica morte che si è registrata al di fuori è avvenuta negli Stati Uniti e, casualmente, riguarda un messicano. Perché? È una domanda a cui tutti vorremmo trovare risposta, ma a cui nessuno sa rispondere. L’origine di questa febbre non è ancora molto chiara, anche se molti messicani si mettono le mani nei capelli quando sentono parlare i media stranieri di “influenza messicana”, e ancora di più quando hanno saputo che la Cina ha chiuso le sue frontiere al “maiale azteco”. In più, l’ipotesi che riecheggia da questo lato dell’oceano è che il virus si sia sviluppato in Asia, da lì ha raggiunto la California, per scendere fino allo stato meridionale di Oaxaca. Il resto, sono storie.

Eneas / Flickr

La fobia e le mascherine

L’immagine della città in questi giorni è cambiata. Ci sono meno attività scolastiche e gran parte dei ristoranti sono chiusi. Sono pochi quelli che si azzardano ad uscire senza mascherina. Chiaramente solo quelli che la trovano, poiché nonostante l’esercito le abbia distribuite durante il primo giorno nei punti più frequentati della città, nelle farmacie sono esaurite velocemente, anche se le vendessero a un prezzo dieci volte superiore al normale, che va dai 0,50 a 1,50 pesos messicani. Anche molte medicine sono esaurite: vitamine e antinfluenzali. Poco importa che le autorità avvertano del rischio di auto-medicarsi e della necessità di rivolgersi a un medico prima dell’avvertimento dei primi sintomi, perché la malattia è curabile. La gente ha bisogno di sentirsi tranquilla, sapendo di avere medicine in casa. Per non parlare della corsa per fare provviste, anche se è stato dato l’annuncio che i supermercati sarebbero rimasti aperti. Il peggio è informare le nostre famiglie all’estero. Mi chiamano allarmati: «Hanno chiuso le scuole». Cerco di spiegare loro che è una delle principali misure per evitare il contagio. Migliaia di bambini a contatto, succhiandosi le dita, mangiandosi il moccolo. «Hanno chiuso i ristoranti!». L’idea è di evitare il contatto tra la gente, (coloro che non obbediscono alla nuova ordinanza, e ce ne sono: molti esigono lo stesso i servizi), ragion per cui è servito solo cibo da asporto.

Il colmo è che non abbiamo dovuto affrontare solo l’allarme sanitario, ma anche un terremoto da 5.8 della scala Richter (“scossa”, precisano i miei compagni di lavoro, un terremoto è superiore ai 7 gradi). Questo ha scatenato la barzelletta della settimana: «Cosa dice il Distretto Federale alla febbre suina? Guarda come tremo!». L’umorismo non cade, al contrario dell’economia, che cade in picchiata verso il basso. Le perdite economiche solo nella capitale del Paese sono salite a più di cento mila dollari al giorno (intorno ai 770mila euro). Molti temono di più la perdita del lavoro piuttosto che il virus. In Messico, normalmente ci si saluta dandosi la mano mentre ci si dà un bacio sulla guancia. Lo stesso succede ogni volta che si arriva e si esce dall’ufficio, ogni volta che ci s’incontra con un amico che si vede tutti i giorni. Io ho fatto fatica a perdere l’abitudine. Adesso che il contatto fisico è “vietato” per evitare il contagio, mi viene a mancare questo gesto d’affetto.

L’autrice è nativa di Córdoba, Spagna, e vive in Messico da due anni.

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Translated from Testimonio desde México D.F.: La 'gripe mexicana' que llegó de Asia