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Stati canaglia. Verdetto: colpevoli

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Ottavio Di Bella

Stati canaglia per gli americani, ‘STIPS’ per gli europei: due diversi appellativi per i paesi presi di mira da sanzioni. E due diversi modi per farli ritornare sulla retta via.

“Una delle maggiori sfide del nostro tempo è far fronte agli Stati canaglia, perché il loro solo obiettivo è distruggere il sistema internazionale”, affermava il presidente americano Bill Clinton sin dai primi anni del suo mandato. Tuttavia la strategia punitiva adottata dagli Stati Uniti verso questi paesi appare ben lungi dal portar frutti.

Inizialmente riservata a sette paesi (Iraq, Corea del Nord, Cuba, Iran, Siria, Libia e Sudan – l'espressione “Stato canaglia”, “rogue State”, identifica dei “paesi ribelli e fuorilegge che non solo hanno scelto di restare al di fuori dalla comunità democratica, ma ne mettono in pericolo i suoi stessi valori”*. Ovvero, delle nazioni che, secondo Washington, sostengono il terrorismo internazionale, perseguono programmi di armamento non convenzionale (fabbricazione di armi biologiche, chimiche o nucleari), incoraggiano il commercio di droga ed opprimono le proprie popolazioni. Queste entità ribelli hanno anche la caratteristica di esser anti-occidentali e di costituire dunque una minaccia agli interessi vitali americani. Addolcita da fumose argomentazioni giuridiche ed inasprita dagli attentati dell’11 Settembre, la teoria dello Stato canaglia, divenuta poi quella del cosiddetto “asse del male”, ed infine quella degli “avamposti della tirannide”, ha segnato la nascita della contestata dottrina nota come “guerra preventiva”.

La politica americana di pressione

In generale, gli Stati Uniti scelgono di fare pressione sul paese in questione, o per destabilizzarne il regime e favorirne la caduta, o per suggerire un cambio nei comportamenti. La serie degli strumenti utilizzati è assai vasta: minacce militari, sostegno alle insurrezioni interne, embarghi, severe sanzioni economiche e soffocamento finanziario, rottura delle relazioni diplomatiche. In base alla legge che stabilisce sanzioni contro Iran e Libia – il 'Iran-Lybia Sanctions Acts del 1996 – il Congresso ha votato a favore di sanzioni "secondarie" che penalizzano le compagnie straniere che investono nelle industrie petrolifere di questi due paesi per esempio, mentre la legge Helms-Burton prevede una punizione identica contro società che investono nei possedimenti americani espropriati da Cuba all'epoca della rivoluzione castrista del 1959.

L'azione militare tuttavia, rimane l'elemento centrale della politica estera americana nei confronti di queste nazioni delinquenti. Sebbene pur esistano dei mezzi legali e legittimi fondati sul capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, passando per il Consiglio di Sicurezza per far fronte alle numerose minacce che minano la pace nel mondo, gli Stati Uniti oltrepassano ormai frequentemente la cornice ONU ed “agiscono in modo multilaterale quando possono ed in modo unilaterale quando lo ritengono necessario” secondo Madeleine Albright, Segretario di Stato sotto Clinton. Ed è sulla base di un intervento mirato a farla finita con un governo dittatoriale e sospettato di detenere armi di distruzione di massa, che gli Stati Uniti sono arrivati nel 2003 in Iraq. Per Washington, questo genere di paesi va isolato e messo al bando dalla comunità internazionale. Perché ostracizzare un paese è un attentato alla sua legittimità ed alla sua credibilità sulla scena mondiale che crea anche delle conseguenze, di ordine psicologico, diplomatico ed economico.

Il dialogo critico degli europei

È interessante constatare invece come l'Unione europea abbia deciso di creare un epiteto specifico, lo STIPS (States Threatening International Peace and Security - Stati che minacciano la pace e la sicurezza internazionale) termine più tecnico che privilegia le azioni non coercitive contro questo tipo di paesi. In effetti l'Ue spera di provocare un cambiamento negli atteggiamenti di simili Stati riattivando le relazioni diplomatiche od economiche. La Siria è stata al centro del processo di Barcellona per esempio, iniziato nel 1995 dall'Ue allo scopo di creare una zona di libero scambio nel mediterraneo entro il 2010. Questo “dialogo” critico porta come corollario il fatto che il problema degli “Stati canaglia” sia solo il risultato diretto della politica interna di Washington. Di più, gli europei hanno parecchie reticenze ad accettare la definizione americana, puramente soggettiva, di Stato canaglia, nella misura in cui potrebbe compromettere i propri interessi economici e politici. Allinearsi sulle posizioni americane riguardo a certi paesi del Medio Oriente, (come la Libia che sta ritornando nelle grazie dei dirigenti europei), significherebbe privarsi di numerose opportunità nei mercati petroliferi.

Nefaste intransigenze

Se è incontestabile che una politica repressiva, addirittura punitiva contribuisca a contenere i paesi pericolosi, essa provoca tuttavia degli effetti perversi: il consolidamento dei regimi presi di mira, un ritorno di popolarità per la locale classe dirigente, crescita del nazionalismo, del fanatismo religioso e del rigetto della comunità internazionale, freno allo sviluppo economico delle regioni colpite, rischi di disintegrazione etnica o religiosa… Le sanzioni unilaterali o decise con la complicità colpevole dell'ONU sembrano dunque venir adottate a scapito degli obiettivi umanitari o della stabilità internazionale. E molti esperti insistono oggi per una politica di intromissione positiva, con un’apertura totale o condizionata, a queste “canaglie”.

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* Brano tratto dalla rivista Strategic Assessment (luglio 1999)

Translated from Verdict : coupables