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Rugby: in Italia ancora troppo calcio

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Lifestyle

L’antica cultura latina è nel dna del rugby. In principio si chiamava “harpastum” e lo giocavano i soldati romani per tenersi in forma durante i rigidi inverni delle campagne militari in Gallia. Uno sport con un’etica ferrea che ancora troppo di nicchia.

Il rugby moderno, con le regole che conosciamo oggi, nasce in Inghilterra alla fine del Diciannovesimo secolo. Dalle nostre parti ha subìto alterne fortune, fino alla sua consacrazione una ventina di anni fa. Merito non solo delle vittorie, ma anche della personalità di George Coste, allenatore della nazionale italiana dal 1993 al 1999. Così la febbre del rugby ha contagiato anche gli italiani.

Pallone ovale a Natale

I giovanissimi lo considerano una valida alternativa a un cFotoRita [Allstar maniac] / Flickralcio sempre più travolto da scandali di doping, sempre più schiavo degli interessi dei grandi sponsor, sempre più “passerella” per giocatori che si atteggiano a vip dello spettacolo. La passione per il rugby sta travolgendo l’Italia. Le partite del torneo Sei Nazioni registrano sempre il tutto esaurito. Ai bambini per Natale si regala la palla ovale. Francesco Ardizzoni, 18 anni, vive a Pieve di Cento, una piccola città in provincia di Bologna. Qui il rugby ce l’hanno nel sangue e si gioca sin dalle scuole elementari. È il capitano dell’Altran Italia Cus Bologna, la squadra di rugby under 19 del Centro universitario sportivo. «Questo sport ti fa capire più di qualunque altro che cosa sia il gioco di squadra: non si gioca solo per spostare la palla, ma soprattutto per supportare il compagno di squadra in difficoltà. Non si gioca per umiliare l’avversario, ma per metterci alla prova fra di noi», dice. In campo non c’è posto per le primedonne. «Giocando a rugby ho imparato la lealtà nei confronti dell’avversario», ribadisce Federico Soavi di Bologna, 17 anni, che gioca nel ruolo di “estremo” nella stessa squadra. Anche lui è cresciuto a pane e rugby. La passione gliel’ha trasmessa suo padre.

Iguana Jo / Flickr

Sudore, fatica, sacrificio. Ma anche fair play, correttezza, solidarietà. Il rugby è tutto questo e… qualcosa che non esiste in nessun altro sport: il famoso “terzo tempo”. È la baldoria che si fa a fine partita, quando i giocatori delle due squadre si lasciano andare ai festeggiamenti. «In campo ottanta minuti da leone, ma fuori torniamo a essere tutti amici», dice Francesco. «Il pranzo della domenica, che in Italia è un’istituzione, lo facciamo con i compagni di squadra anziché in famiglia», aggiunge Federico.

Santo sponsor

Ma perché il rugby in Italia resta comunque uno sport “di nicchia”? Colpa dell’indifferenza dei mass media, sostengono un po’ tutti. In televisione si parla quasi unicamente di calcio. Il rugby resta confinato alle pay-tv. La latitanza di grandi sponsor (a eccezione della Benetton Rugby di Treviso) tiene questo sport lontano dai riflettori. E la stessa squadra under 19 del Cus Bologna non esisterebbe più se Altran Italia, società di consulenza, non ne avesse preso a cuore le sorti. I ragazzi dell’Altran Italia Cus Bologna si allenano quattro volte la settimana, dopo lo studio. Giocano quasi ogni domenica alle 12.30 sotto sole, pioggia o neve. «Il contatto e il placcaggio sono componenti essenziali», spiega Alessandro Marino, coach della squadra e allenatore di rugby da oltre vent’anni. «L’’intreccio di corpi è necessario per sfondare il muro dell’avversario. Si creano sinergie per sopravvivere, per occupare lo spazio degli altri, ma si combatte sempre con grande lealtà. Forse è per questo che, in una società in cui ci si afferma assestando colpi bassi, il rugby è quasi uno sport fuori dal tempo».

Che cosa contraddistingue i ragazzi che giocano a rugby? «Una grande forma fisica sorretta da intelligenza e totale controllo dell’aggressività: nel rugby tutto il corpo diventa il braccio operativo di una mente sveglia e rapida», continua il coach. «E in più la compostezza e una grande attenzione nel relazionarsi con gli altri».

Il rugby come disciplina ed educazione al rispetto: infatti gli assistenti sociali lo considerano una buona terapia per attenuare l’aggressività dei “bulli”. Ritroviamo lo stesso rispetto e compostezza nella tifoseria, che non ha mai fatto parlare di sé per episodi di violenza, fenomeno purtroppo associato sempre più spesso alle manifestazioni calcistiche.