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Ragazze alla pari: cenerentole in Europa

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società

Un'esperienza che porta molti giovani tra i 18 e i 28 anni all'estero, in famiglia. La formula sembra allettante. Ma le fregature sono dietro la porta... di casa.

9 Settembre 2007. Il grande giorno è arrivato. Si parte. Destinazione: Lille, Nord della Francia. Alice, 25enne italiana, una laurea in Lettere e un sogno mai realizzato: vivere un anno all’estero. Così ecco la decisione: «Vado a fare la ragazza alla pari». Cosa significa au pair? Vitto e alloggio e un piccolo compenso che si aggira intorno ai 280 euro mensili, in cambio di trenta ore settimanali come baby sitter e qualche lavoretto di casa. Un buon modo, almeno sulla carta, per potersi mantenere all’estero e imparare una lingua straniera non solo seguendo dei corsi, ma soprattutto immergendosi nella cultura della famiglia ospitante. Un giro d’affari che porta ogni anno nel solo Regno Unito 30mila persone straniere, seguito da Francia con 20mila, Germania con 5mila e Italia con 3mila. Ma non sempre l’entusiasmo iniziale viene ripagato, e molte volte, già dalle prime settimane si ha la sensazione che qualcosa non quadri.

Alice, nel paese delle stoviglie

Ed è così che Lille diventa Lomme, paesello di una manciata di anime a circa una decina di chilometri dal centro città, con un servizio di autobus che collega la zona residenziale alla metro ogni trenta minuti. «Senza considerare che le fantomatiche trenta ore settimanali non comprendono il servizio di baby sitter serale, arrivando così tra le trentacinque e le quaranta», lamenta Alice.

Cosa promettono le agenzie che reclutano le au pair? Innanzitutto le mettono in contatto con la famiglia, cosa che frutta tra due e trecento euro ogni tre mesi come compenso per la mediazione. In uno dei siti di queste agenzie, ad esempio, si legge che la ragazza deve essere «considerata come un membro della famiglia, una sorta di sorella maggiore e non come una domestica» e che non dovrà «in nessun caso» fare lavori pesanti come lavare i vetri, pulire il frigorifero o il forno. Tutto nero su bianco.

Balle spaziali

Agnieszka, 26enne polacca, ci racconta com’è andata. «Ho lavorato otto mesi presso una famiglia francese e facevo di tutto. Ogni mattina caricavo la lavatrice, stiravo, cucinavo, portavo i bambini a scuola, andavo a riprenderli e soprattutto dovevo essere disponibile 24 ore su 24. Quando uno dei piccoli era malato non potevo neanche seguire i miei corsi di lingua perché dovevo stare con lui. In tutto questo la madre era a casa perché in maternità, ma passava le ore davanti alla televisione. Quando mi vedeva passare mi diceva: “Agnieskza, fai come se io fossi trasparente”». Il peggio è stato nel mese di giugno, quando la famiglia ha traslocato: «Ho passato giorni a fare scatoloni, imballare, caricare e scaricare l’automobile, e fare la spola tra la vecchia e la nuova casa. Ho resistito fino alla fine, ma se ritornassi indietro non accetterei mai più di essere trattata così».

Anche per Justina, originaria della Repubblica Ceca, le cose non sono andate come sperava. La sua agenzia le aveva trovato una famiglia nel cuore di Parigi, un vero sogno. «Quando sono arrivata non conoscevo nessuno e il mio francese era agli inizi. L’agenzia mi aveva tranquillizzata dicendomi che sarebbe stata la famiglia ad aiutarmi a conoscere persone, ma non è stato così. Finite le ore di lavoro volevano che mi ritirassi nella mia stanza, in soffitta, che era di sei metri quadrati, perché avevano bisogno della loro intimità. Dopo un po’ mi sono abituata, ma è stata dura».

La stessa cosa è successa a Veronika, una ragazza tedesca appena 18enne. «Volevo prendermi il cosiddetto anno sabbatico prima di iniziare l’università e sono partita per Londra. Sono rimasta solo tre mesi. Mi trattavano come se fossi una loro proprietà. Gli orari cambiavano ogni settimana in base alle loro esigenze, durante le vacanze invernali dovevo occuparmi anche degli amici dei bambini e le ore in più non mi sono mai state pagate. Per non parlare dei lavori di casa. Variavano dal pulire la pipì del cagnolino al lavare, una ad una, le ventose del tappetino antiscivolo della doccia».

Eppure quello delle au pair sembra essere un vero e proprio business, soprattutto per le agenzie. Esiste una selezione: per presentarsi alla futura famiglia bisogna compilare dettagliatamente una serie di documenti. Nulla è lasciato al caso. Bisogna dichiarare il peso, l’altezza, la fede religiosa, il titolo di studio. Ti vengono richieste referenze scritte, con tanto di recapiti telefonici, alcune foto con dei bambini, un certificato medico, una fotocopia della carta d’identità e della fedina penale e, per finire, una dichiarazione che dimostri che lavoro svolgono i tuoi genitori.

Insomma un check-up completo per evitare sorprese. Peccato che poi le vere sorprese le abbiano proprio loro, le cenerentole del nuovo Millennio.

ESPERIENZA ALLA PARI: IL FORUM

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Foto: in Homepage Graffitiland/flickr, nel testo beka2067/Flickr e juliosm/flickr