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Racconto di una giornata a Srebrenica, due decenni dopo il genocidio

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Le cicatrici di Srebenica sono profonde. Nel luglio del 1995, questa città situata al confine orientale della Bosnia ed Erzegovina, fu teatro di un genocidio. 23 anni dopo, tra edifici vuoti e fori di proiettili sui muri, i giovani del luogo raccontano gli sforzi per riconciliare passato e presente.

Una strada perforata da innumerevoli buche serpeggia nell'entroterra della Republica Srpska di Bosnia ed Erzegovina. Si inerpica verso l'alto, tra foreste innevate. Poche case si sparpagliano a destra e a sinistra, molte senza intonaco, costruite con mattoni nudi. Alcune di esse mostrano segni di vita, altre sono in rovina. A volte, è difficile distinguere le une dalle altre. La strada porta a una valle stretta che finisce come una sorta di vicolo cieco. Prima che la strada finisca, nella piazza principale di una tetra cittadina, gli ultimi segnali stradali rivelano la destinazione: Сребреница – Srebrenica.

Il bus che aveva lasciato Sarajevo alcune ore fa, si ferma di fronte al centro commerciale Poslovni Centar. I passeggeri scendono, l'autobus torna indietro e lascia la città. Fa freddo, e quasi non si vede più nessuno in giro. Molti edifici nel paese sembrano abbandonati. Del resto, solo 5mila persone vivono ancora in questo posto. Il declino demografico è una conseguenza della Guerra in Bosnia ed Erzegovina che si svolse tra il 1992 e il 1995 e degli omicidi e trasferimenti coatti della popolazione musulmana perpetrati dai soldati serbi. Srebrenica oggi viene percepita e vista come una città abbandonata.

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Srebrenica © Andreas Trenker

L'acqua scorre ancora in profondità

Bekir Halilović, un giovane cittadino e attivista politico, è una delle poche persone che cercano di ribaltare il destino di questo posto. Quando lo incontriamo è seduto a un tavolo del bar del Poslovni Centar - le labbra ricurve verso l'alto, in un sorriso gentile. Il 24enne è nato qui. Ma quando i soldati serbi invasero questa zona nel luglio 1995, sua madre fu obbligata a fuggire con lui e i suoi fratelli verso Tuzla, dove hanno vissuto come rifugiati nella piccola cittadina di Banovići. Ora, a quasi trent'anni di distanza, è tornato nella sua città natale per studiare Diritto internazionale.

I romani furono i primi a riconoscere il valore di Srebrenica e chiamarono la città prima Domavia, poi Argentaria, in riferimento alle risorse che venivano estratte nella zona

Bekir inizia a parlare con voce calma e amichevole, mentre canzoni pop bosniache risuonano in sottofondo. Ma dopo qualche minuto, viene improvvisamente interrotto: un turista franco-palestinese entra nel bar per chiedere concitatamente dove può trovare il monumento ai caduti. Un amico di Bekir decide di accompagnarlo, mentre lui sospira e spiega che le visite al monumento sono l'unico motivo per cui i turisti vengono ancora da queste parti.

Ma Srebrenica ha molto di più da offrire, spiega. Camminando lungo una delle strade della città, Bakir si dirige verso la nuova moschea e la chiesa protestante, situate l'una vicino all'altra. Un grande edificio situato dietro i due siti religiosi domina la scena: è l'Hotel Domavia. La facciata gialla cade a pezzi e poche finestre sono ancora indenni. All'interno, la vegetazione ha preso piede ormai. I giorni gloriosi di quello che fu il primo Spa Hotel della zona sono finiti da tempo: dalla guerra del 1992, l'economia della città e il turismo non si sono più ripresi.

Hotel Domavia

Hotel Domavia © Stefania Zanetti

Come un testimone silenzioso, la struttura alberghiera ricorda i tempi in cui Srebrenica era una delle maggiori destinazioni turistiche dell'area. In effetti, la città era conosciuta per le sue acque curative anche fuori dai confini nazionali. Ma l'edificio riporta alla memoria anche la storia millenaria del posto. I romani furono i primi a riconoscere il valore di Srebrenica e chiamarono la città prima Domavia, poi Argentaria, in riferimento alle risorse che venivano estratte nella zona. Ad ogni modo, in epoche più recenti nacquero un gran numero di "vene" minerarie nelle colline dei dintorni. Le prime sorgenti d'acqua vennero analizzate dopo l'annessione della Bosnia all'impero Austro-Ungarico. L'acqua, ricca di ferro, si rivelò un importante elemento utilizzato a scopi terapeutici. Contemporaneamente, anche grazie al turismo fiorente, venne costruito un impianto di imbottigliamento e la tanto bramata acqua Guber diventò un prodotto di esportazione di successo.

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Fiume a Srebrenica © Andreas Trenker

Una lenta ripresa

Oggi le sorgenti non si sono ancora prosciugate e c'è un ruscello dal colore rossiccio che scorre lungo il panorama innevato. Ma in qualche modo, istintivamente, tutto ricorda gli eccidi e le atrocità della guerra. Bekir passeggia lungo il corso d'acqua e si ferma di fronte ad alcuni edifici. Poi alza lo sguardo e indica un paio di strutture vuote: un nuovo Hotel Spa e un impianto di imbottigliamento situati poche centinaia di metri più a monte. Spiega che il posto sarebbe potuto diventare un catalizzatore per la svolta economica e creare nuovi posti di lavoro in uno stato con un tasso giovanile di disoccupazione che va oltre il 55 per cento. Inoltre, avrebbe dato speranza alle persone rimaste e a coloro che vorrebbero tornare nella loro città natale. Ma i lavori di costruzione, che sarebbero dovuti finire nel 2012, sono stati fermati in maniera prematura. L'azienda responsabile non ha ottenuto le licenze per completare il progetto. «Conflitti di natura politica», suppone Bekir.

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Srebrenica innevata © Andreas Trenker

In questo momento, le forze politiche non ipotizzano nessuna ripresa. E in un certo senso, i rappresentanti politici di tutti i gruppi etnici sembrano beneficiare del fatto che Srebrenica sia bloccata nel passato. Peccato che non si tratti del glorioso pre-guerra, ma di un paralizzante periodo post-bellico. Bekir è scontento dei politici locali. Una ragione in più per unirsi al SDP, il Partito social democratico: l'unica formazione multietnica in città. Il giovane bosniaco vuole affrontare in prima persona i problemi del posto in cui vive. Secondo lui, se le cose non cambieranno, i cittadini di questa zona non avranno un futuro. Eppure la sua visione non si restringe al futuro e sa benissimo che quello che è successo nei primi anni '90 non deve essere dimenticato.

«Ho un'età sufficiente per poter dire che ho avuto un'infanzia migliore di quella dei giovani di oggi»

Anche Bekir porta addosso i segni della storia. Ad un certo punto, indica il posto dove ha «visto per l'ultima volta suo padre». Lui era un neonato e non ha nessuna memoria di quell'addio. Conosce il volto di suo padre grazie alle foto che sua nonna è riuscita a salvare durante la guerra. Infatti, molti documenti storici e fotografie private vennero bruciate dalle fiamme durante l'attacco. È come se le forze armate serbe avessero tentato di cancellare ogni traccia di presenza musulmana a Srebrenica. Bekir e altri membri dell'associazione Adotta Srebrenica stanno facendo sforzi per trovare reperti sopravvissuti al conflitto. Durante il laborioso lavoro hanno anche raccolto, identificato e archiviato foto anteguerra. È stato quindi creato un archivio digitale che ricostruisce i ricordi della città prima della guerra, ma anche delle persone che ci abitavano.

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Bekir mentre parla © Stefania Zanetti

«Il progetto è nato come iniziativa personale da uno dei soci, ma ben presto è diventato un archivio collettivo con dozzine di immagini che presto saranno accessibili anche online», spiega Valentina Galić di Adotta Srebrenica. Diversamente da Bekir, Valentina ricorda bene il periodo pre-guerra. Oggi ha 45 anni e, oltre a lavorare senza sosta per un cambio politico e sociale, è anche madre. Si tratta di una circostanza che influenza il suo punto di vista sulla Bosnia contemporanea: «Ho un'età sufficiente per poter dire che ho avuto un'infanzia migliore di quella dei giovani di oggi», confessa. L'affermazione rivela che il processo di riconciliazione è ben lontano dalla conclusione e che la stabilità economica deve essere ancora raggiunta.

«Le ultime generazioni stanno crescendo in un ambiente politico ostile», racconta Valentina, «perciò hanno bisogno che qualcuno gli comunichi i valori di coesistenza, libertà e pace». Lei sa che l'intero Paese necessita di un processo di riconciliazione. In questo senso, Srebrenica può diventare un modello per lo sviluppo della nazione. Con la costruzione di questo archivio fotografico, l'associazione vuole mostrare ai più giovani che è esistito un tempo in cui croati, serbi e musulmani convivevano e lavoravano assieme pacificamente, a Srebrenica e nei dintorni.

I boschi attorno a Srebrenica appaiono fitti e arcani: gli esperti dicono che ci sono sicuramente altre fosse comuni e anche delle mine esplosive, seppellite durante il conflitto

Eppure Valentina non vede il domani attraverso lenti colorate di rosa. A un certo punto fissa le sue mani, sospira, e dice: «I politici parlano ancora come se fossimo in guerra. Non si lasciano alle spalle il conflitto. Torna a loro vantaggio, ma non conviene al popolo». Lei sa quant'è difficile trovare il giusto equilibrio tra memoria di un passato orribile e la visione ottimistica del futuro. Specialmente quando ogni destino personale è inserito all'interno di un contesto collettivo più ampio e complesso. I membri delle famiglie delle vittime e i colpevoli vivono ancora nelle stesse strade e negli stessi quartieri di sempre. Molte persone ancora non sanno cosa sia successo ai loro cari durante l'attacco a Srebrenica. Si tratta di incertezze che rendono ancora più difficile scendere a patti con il passato.

Scheletri di cemento

Quando le truppe serbe, sotto il comando di Ratko Mladić, conquistarono il territorio musulmano, il padre di Bekir cercò di scappare con altri soldati bosniaci attraverso le foreste. Volevano sfondare le linee nemiche e raggiungere Tuzla. Molti di loro vennero catturati e giustiziati; altri non sopravvissero allo sforzo di quella marcia di morte. Tutto quel che Bekir sa riguardo gli ultimi giorni di suo padre fu che scambiò la sua uniforme con abiti civili prima di morire. I suoi resti furono trovati anni dopo in una fossa comune.

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Finestra con fori di proiettile © Andreas Trenker

I boschi attorno a Srebrenica appaiono fitti e arcani: gli esperti dicono che ci sono sicuramente altre fosse comuni e anche delle mine esplosive, seppellite durante il conflitto. Ma il pericolo non frena gli abitanti dall'entrare nella foresta. Nonostante gli sforzi fatti dalle comunità internazionale per liberare la Bosnia da queste armi latenti, ci vorranno dai 20 ai 30 anni perchè l'intera regione possa essere dichiarata fuori pericolo.

Poco prima di raggiungere gli edifici mai completati dell'Hotel Spa, una parete metallica blu blocca il nostro cammino. Su di essa, alcune firme promuovono l'impianto di imbottigliamento e la struttura alberghiera mai realizzati. In effetti, non si tratta che di scheletri di cemento. In quello che sarebbe dovuto diventare il ristorante, sono state installate delle finestre, ma solo per proteggere le solitarie guardie di sicurezza dal vento gelido. Al massimo, si può dare un'occhiata al materiale e agli attrezzi che gli operai dell'azienda hanno lasciato sul posto. Allo stato attuale, nessuno sa prevedere quando verranno completati i lavori.

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Lavori edili incompiuti © Andreas Trenker

Non tutto cade in rovina a Srebrenica

Bekir sa quanto è difficile instillare un cambiamento: bisogna conoscere gli abitanti, ma anche il loro passato. Questo è il motivo per cui ha fatto a meno di parlare di politica con alcuni residenti. In tutto ciò, alle ultime elezioni parlamentari, Bekir ha ottenuto 200 preferenze: un piccolo risultato che alimentato le sue speranze. E quest'anno Bekir si candiderà nuovamente. Ma la situazione di Srebrenica non può essere risolta solo attraverso la politica. Per lui, quel che conta è «lavorare assieme alla riscostruzione di una generazione post-bellica».

Negli ultimi anni, Bekir ha anche collaborato per i preparativi dell'International Peace Camp ("Campeggio internazionale per la pace"). Durante questo campeggio, l'organizzazione Per Srebrenica ospita adolescenti di diverse etnie, religioni e bakground politici presso il Lake Perucac. Si tratta di una campagna positiva per stroncare sul nascere l'ostilità tra gruppi etnici. Ma il problema è che questi ragionamenti attraggono solo coloro che sono già della stessa opinione. Ancora oggi, passeggiando per le vie della città, si colgono piccole provocazioni da parte dei vari gruppi: testi in cirillico cancellati con dello spray nero, bandiere serbe appese sul filo del bucato, ecc. Sono fatti che potrebbero sembrare banali, ma in realtà tutto ciò semina odio. Nel frattempo, le autorità cercano di prevenire gli atti di vandalismo con la presenza notturna della polizia attorno alla moschea, alla chiesa e al monumento alla Memoria.

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Bandiera Serba © Andreas Trenker

Bekir, comunque, rimane fiducioso: «Non tutto cade in rovina a Srebrenica». In efetti, la sua opinione riguardo lo status quo non è poi così negativa. E con riferimento alle piccole provocazioni, dice che è la ragione per cui dovrebbero essere preservati i ricordi.

Felice anno nuovo

«Se volete cambiare qualcosa, dovete venire qui», spiega Bekir mentre ci dirigiamo verso il luogo in cui avvenne il genocidio. È importante capire cosa è successo in quei giorni di luglio del 1995.

In funzione di un assalto alla zona di sicurezza dell'ONU, il comandante serbo-bosniaco Mladić circondò Srebrenica ponendo sotto assedio la città per mesi. La maggioranza degli abitanti della città cercò allora rifugio proprio nella base ONU di Potocari, a pochi chilometri di distanza. I soldati tedeschi (definiti anche "dutchbat" al tempo) vennero schierati presso un'ex fabbrica di batterie da dove avrebbero dovuto proteggere l'enclave musulmano da un attacco delle truppe nemiche. Ma a causa di una mancanza di equipaggiamento e di supporto, divennero semplici spettatori del peggior massacro su suolo europeo dalla Seconda guerra mondiale in poi. Mladić ordinò la separazione degli uomini musulmani dalle loro famiglie. Le donne e i bambini vennero sfollati mentre 8.327 uomini furono uccisi nei giorni successivi in diversi luoghi della zona.

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Lapidi © Andreas Trenker

Proprio dall'altra parte della strada, davanti all'ex fabbrica di batterie, ci sono centinaia di lapidi bianche equidistanti l'una dall'altra, che ricoprono la collina del cimitero. Ogni lapide è un memoriale per ogni figlio perduto della città. La neve fresca camuffa tutto, ma la lista dei nomi all'ingresso è infinitamente lunga e mostra le dimensioni del massacro. Solo il cognome "Omerović" ricorre una dozzina di volta: un intero albero genealogico cancellato.

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Bekir visita le tombe dei suoi familiari © Andreas Trenker

Bekir si ferma sulla tomba di suo zio e prega prima di guardare il massiccio numero di tombe, sussurrando l'età delle vittime. «Erano solo bambini» dice, persone che oggi avrebbero la sua età. Tra i pilastri bianchi del cimitero ci sono alcune tavole di legno verde. Queste ultime hanno solo numeri invece che nomi, e sono le nuove tombe. Ogni anno, a luglio, gli ultimi resti scoperti e identificati vengono seppelliti durante il Giorno della memoria. Si tratta di una ricorrenza che richiama le troupe televisive internazionali, ma appena la cerimonia finisce, tutti lasciano di nuovo Srebrenica.

I buchi lasciati dalle pallottole decorano le mura della città. Solo alcune case hanno le luci accese, il fumo che esce dai comignoli fluttua nell'aria. E così diventa sempre più chiaro capire quante case siano state abbandonate. In centro, ci sono due edifici "scoperchiati": ci nevica dentro e i muri sono orfani di mattoni. A fine giornata, l'autobus torna indietro verso Sarajevo. La strada che conduce fuori dalla città è decorata con luci fiabesche. E non appena l'autobus esce dal comune, c'è un'insegna al neon che recita: "Srećna Nova Godina": "Felice anno nuovo".

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Srebrenica di notte © Andreas Trenker

Quest'articolo è stato scritto da Andreas Trenker e pubblicato originariamente l'1 Marzo 2018 su Voices of Change, un progetto di narrativa incentrato su giovani politicamente e socialmente attivi in Paesi in cui si lotta per l'affermazione della democrazia.

Story by

Andreas Trenker

Italian graphic designer, visual journalist and travel addict.

Translated from Srebrenica: A city fighting for its future