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Portrait of Naples #2 – Stathis. Da Atene a Napoli, vivere ed amare le contraddizioni

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foto di Eliana De Leo - "Napoli è una città anarchica, è la sua caratteristica forse più affascinante” Da quando aveva 17 anni è a Napoli, oggi ne ha 26. Quando era bambino sognava di venire a viverci, ma immaginava una casa con la vista sul golfo e i mandolini suonare a tutte le ore. Poi, quando ci è venuto ad abitare ed ha scoperto che non tutte le case affacciano sul golfo?

Com’è stato scoprire la vera Napoli?

“Vabbè quando sono arrivato già ero cresciuto! -  mi dice ridendo, poi diventa serio e continua – In realtà abitare a Napoli è un lento processo di adeguamento, all’inizio t’impressioni di alcune cose, ne sei anche eccitato, piano piano cose assurde iniziano a sembrarti del tutto normali… però poi ricominci ad impressionarti”. Fa un mezzo sorriso ironico, mi fa capire chiaramente quanto in lui coesistano impressioni molto positive e molto negative. “Napoli è una città anarchica, è la sua caratteristica forse più affascinante”.

Ora sto per dire una cosa che forse sembrerà banale ma Efstathios, Stathis per tutti, oppure “O’ Grèc” (Il Greco) per gli amici, è un ragazzo meraviglioso. Non lo dico perché lo considero un amico e non lo dico neanche perché all’università un sacco di giovani matricole lo guardano sospirando. Lo dico perché lui è uno sincero e mai banale nelle risposte, riflette e trova sempre prospettive diverse da cui guardare le cose. Inoltre, sarà per questo suo riflettere o per il tono di voce, ma ha un potere calmante sugli altri, una sorta di suo prendere le cose con spensieratezza molto greco, ma anche molto napoletano.

Ci siamo dati appuntamento a piazza San Domenico, ormai era ora di pranzo e siamo andati alla solita trattoria super economica. Solo due giorni dopo Stathis è partito per la leva militare obbligatoria di un anno. Non ci sono stati permessi di studio che tenessero. C’è aria di cambiamento e di saluti, quest’intervista l’avevamo programmata mesi prima, poi ci siamo ritrovati a farla con una valigia ancora da chiudere. Chiacchieriamo davanti a un caffè .

Ma tu a Napoli ci vivresti per sempre? “Per il momento è la città dove ho vissuto di più, la sento mia, sto bene a Napoli. Adesso devo andare via e non vorrei. Ho anche quasi finito gli studi e per il cammino intrapreso qui non credo di potermi realizzare. Se penso ad un futuro di vita non vedo Napoli. La vedo più come un posto dove ritornare, come casa. Un marinaio greco una volta mi disse “Se vivi a Napoli imparerai cos’è la vita, imparerai a vivere” e un po’ è stato così. È per questo che avevo già deciso di venire a studiare qui”. L’Orientale di Napoli è un’università rinomata per lo studio delle lingue, specialmente quelle asiatiche. Stathis ha studiato cinese. “Questa cosa ha accresciuto la visione romantica che mi portavo dietro da bambino ed il mio senso d’insofferenza verso l’essere un po’ attendisti e fraccomodi dei greci, che poi lo sono anch’io”. Resto perplessa, è venuto nel posto giusto insomma. Ride. “In Grecia è peggio, nonostante la ami moltissimo, forse non ci potrei vivere, e non potrei neanche vivere in un posto che non è così”. Contraddizioni che sanno di mediterraneo. Sono convinta che affermazioni come questa per determinati tipi di culture risultino inspiegabili.

Ecco, cerchiamo di essere concreti e di non “intalliarci” su pensieri troppo romantici. Hai dovuto affrontare delle difficoltà qui, nella vita di tutti i giorni o quando sei arrivato? “Ho vissuto un po’ di disagi con i trasporti, prima abitavo nella zona dei Colli Aminei, ho passato nottate a dormire aspettando il notturno. Relativamente alle strutture universitarie, sì, c’è un po’ di disorganizzazione ma nulla che con attenzione non sia superabile. Certo, le informazioni devi andarle a cercare mentre in altri posti alcuni meccanismi sono più automatici. E tornando al discorso delle cose anormali che qui sono assolutamente normali, il trovare casa e fittarla senza alcun tipo di contratto, nei primi tempi soprattutto ti fa vivere sempre con l’incertezza”.

Restiamo su questo senso d’incertezza, pensi che questo sia un posto ospitale?

“È ospitale, nell’immagine che ti da di sé. Trovi sempre gente per strada, si vive molto la piazza, la via come luogo di aggregazione, è questo a farla sembrare una città ospitale. Però… secondo me i napoletani non sono veramente ospitali, sono un po’ chiusi, sono egoisti e diffidenti. Poi chiaramente dipende, ma la diffidenza è una cosa che viene un po’ inculcata dalla città stessa. Una volta che ti conoscono, tutto a posto, ma all’inizio è difficile che ti dicano “vabbuò vieni a dormire a casa mia”, per fare un esempio banale. Prima c’è lo studio “chi sei, a chi appartieni”. Poi basta vivere del tempo insieme che è facile che si instauri subito un rapporto fraterno molto forte, carnale.  Si dice che i mancini sviluppino capacità maggiori perché questo è un mondo fatto per destri. Non so, è come se i napoletani vivendo difficoltà reali, esistenti, s’impegnassero di più in tutte le cose ma soprattutto nei rapporti personali”.

Ecco quello che intendevo prima. Il napoletano stereotipato è compagnone, casinaro e ospitale ma quel che Stathis mi sta dicendo suona molto vero, soprattutto pensando a generazioni più adulte, di vedute meno aperte di quelle di un ragazzo che a 17 anni è già un cittadino migrante europeo. 

Cosa ti offre? “Soprattutto a livello lavorativo poco. Anche quando trovi un lavoro non proprio ben pagato sembra fantastico, in realtà non lo è. Io ho lavorato sfruttando un po’ le traduzioni dal greco e poi con un’agenzia a Milano, quindi non direttamente qui. Relativamente all’offerta culturale c’è, ma non è facilmente reperibile soprattutto per gli stranieri. E le cose che si fanno fuori dal centro storico non sono sempre agevolmente raggiungibili. Io stesso esco raramente dal centro. Arrivare per esempio a Pozzuoli senza macchina è uno sbattimento”. Ormai è da tempo che sei qui, hai notato cambiamenti significativi nel corso degli ultimi anni? Pensando anche al passaggio di Sindaco e  giunta. “De Magistris viene accusato di populismo sfegatato. Ed è vero da un certo punto di vista. Ci sono dei cambiamenti ma non sono completi. Il lungo mare sgombero da macchine è bellissimo, meraviglioso. Si, vado là e poi che faccio? Quando si organizzano fiere e concerti va bene, ma altrimenti è un po’ lasciato a sé stesso. La pista ciclabile purtroppo non ha funzionato granché. Una cosa che forse ha sortito degli effetti positivi, sono le telecamere sparpagliate qui per il centro. Prima la microcriminalità era molto più evidente e pesante, ora mi sembra che la situazione si sia attutita e ne sono contentissimo. Qui si apre un capitolo enorme sul controllo in stile grande fratello, ma è un altro discorso”. E se ti dicessi multiculturalità e modernità che mi diresti? “Multiculturale sì. Moderna no. No proprio no. Per infrastrutture, per mentalità. No. Le persone, anche giovani, spesso sono ancorate a concezioni, a cose premoderne”. A che ti riferisci? Ti sei mai sentito discriminato? “Discriminato sì, ma in maniera amichevole. Sono sempre stato chiamato O’Grec. Poi chiaramente quando torno in Grecia sono “L’italiano” ma questa cosa ormai l’ho accettata volentieri. In generale si tende a discriminare un po’, lo straniero spicca, la diversità viene accentuata, spesso non in mala fede, più per curiosità, si nota, si guarda, si commenta. Forse per questo in effetti non è molto multiculturale”. 

Parlando di multiculturalismo, ospitalità e quindi integrazione, come vedi il futuro dell’Unione Europea? Qual è la tua opinione, anche rispetto alle politiche degli ultimi tempi. “Assolutamente negativa. Ho la fortuna di venire da due paesi che in questo momento occupano i gradini più bassi della comunità. In Grecia si sta svendendo tutto, imprese e proprietà pubbliche, vengono dati in gestione siti culturali che di certo non si potranno recuperare da un giorno all’altro. Credo che tra un anno la situazione probabilmente sarà anche peggiore, pagheremo gli interessi sui prestiti delle banche francesi e tedesche. Idealmente ci credo. Credo al processo di integrazione europeo come ideale, che esiste, anche nella gente. Effettivamente però, nelle politiche d’integrazione, se guardiamo a quelle intra-europee, per me si sta andando in una direzione opposta. Si sta creando sempre più un centro e una periferia”.

In che Unione Europea ti piacerebbe vivere in futuro? Sospira, ci pensa, beve un sorso di caffè e fa un tiro di sigaretta. Per chi ha fatto studi politici non è mai semplice rispondere a domande come questa, si aprono mille scenari davanti agli occhi e trovare una riposta più o meno breve è ardua impresa. “Credo anche all’Unione Politica, credo in una mobilità intraeuropea ma che significhi una maggiore fusione, un’eguaglianza anche a livello interstatale. Mi piacerebbe che i confini si allargassero, che davvero tutti avessero le stesse possibilità, ma mi piacerebbe anche che ognuno mantenesse le proprie peculiarità e tipicità culturali. Un posto dove poter scambiare idee differenti”. Sospira di nuovo, la risposta non gli sembra convincente, così incalzo. Guarda che non dev’essere per forza qualcosa di realizzabile o troppo concreto. “Io ho un sogno, che però sposta il baricentro un po’ più in basso. Guardo al Mediterraneo. Ad un’unione ancor più grande”. E qui ci perdiamo in discussioni sul dibattito euro-mediterraneo che vi risparmio.

Sei personalmente affetto dalla crisi? “Beh si, a parte questioni di poco lavoro, proprio nella vita quotidiana. Qui tanto quanto vivo sereno, in Grecia la crisi si sente di più. La persone non riescono a pagare le bollette dell’Enel e quando arrivano i controllori a staccare il contatore, siccome non c’è il sistema automatizzato, le persone danno di matto. Sembrerà una sciocchezza ma con gli amici se sei seduto dieci minuti al bar, si finisce inevitabilmente per parlare di quello. I greci poi sono orgogliosi e si sentono offesi in questo momento in cui vengono additati come l’ultima ruota del carro. Se non altro tutto questo ha spinto la gente ad informarsi, a cercare di capire, a confrontarsi. Si aprono dibattiti, anche tosti, in edicola, in libreria tra persone comuni che sono andate ad acquistare libri per conoscere realmente quel che gli sta accadendo. Ecco, qui in Italia questo fenomeno mi sembra ancora un po’ smorzato, come se si fosse ancora “in attesa” del peggio. O forse torniamo a quel che dicevamo prima, all’accettare, al riuscire a prender per normale anche quel che normale non è”.