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Pensiero unico: né ideali, né dibattiti

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Bruxelles

In un mondo dove prolifera il pensiero dominante, dove i pensieri divergenti sono perennemente confutati, e dove i confronti violenti si moltiplicano nel desiderio di sottomettere l'altro, come creare le condizioni per un vero dibattito?

«Quest'anno ci ha fatti tremare particolarmente» introduce la mediatrice di questo dibattito sul dibattito, enumerando i terremoti, gli attentati e le altre tragedie che hanno contraddistinto l'anno 2015.

Deriva senza dubbio dal fatto che si è rimasti scossi, il volersi interrogare sui «confronti violenti», di cui si è potuto avere testimonianza da vicino o da lontano. I «confronti violenti» costituiscono il tema portante dell'edizione 2015 del Festival delle Libertà a Bruxelles. In un'epoca in cui dibattiti democratici diventano a loro volta dialoghi sordi, o sterili polemiche, gli organizzatori hanno voluto sollevare la seguente questione: a quali condizioni lo scambio di idee è «possibile, creativo e fecondo»? La storia ci ha compromesso, il sociologo Saïd Bouamama osserva che questi conflitti non sarebbero così «acuti e visibili» se non si avesse avuto e se non persistesse ancora un tale atteggiamento nell'evitare il dibattito da parte nostra.

Una sociologia delle dominazioni

Nel dibattito contemporaneo, l'«uniformità del pensiero» sembra essere un vero flagello – annuncia Bouamama – una rinnegazione di se stessi quanto degli altri. Allora, perché il dibattito si svolge così male? Innanzitutto, perchè non è molto semplice «concatenare», trovare e creare dei collegamenti, come ci spiega il filosofo Jean Blairon. E dopotutto, il dibattito dovrebbe avere come finalità quella di contribuire a far «emergere un'intelligenza collettiva concatenata». Si tratta di creare un «pensiero trainante» che il lettore o l'ascoltatore seguirà oppure no, ma l'essenziale è di creare interesse in senso stretto, e dunque invitare l'altro ad «esserci». All'interno del dibattito si possono esercitare una serie di dominazioni di tipo diverso, autorizzando di volta in volta l'uno o l'altro dei partecipanti a presentare l'altro come totalmente irrazionale. L'assegnazione di certe tesi devianti dal pensiero dominante costringe coloro i quali lo difendono ad «alzare il tono». Questo è il primo passo prima di strumentalizzare questa irrazionalità, per meglio decostruire il discorso deviante. È qui che secondo Bouamama si designa spesso una confusione tra «conflitto» e «violenza»: il conflitto sopraggiunge quando i rinnegati possono esprimere la loro negazione che, così esposta, permette di evitare la violenza; la violenza non è altro che il risultato dell'assenza del conflitto, dovuto ad una parola diventata impossibile.

Alcuni impliciti nel dibattito

Certe azioni implicite nell'organizzazione del dibattito non contribuiscono a rendere questo produttivo, come ci descrive Bouamama:

la ripetuta «invalidazione» della parola di alcune classi, postulato di una «emotività» supposta di alcuni partecipanti, di una «incapacità» di alcuni, per la quale si nega «la competenza del già noto», «il sapere popolare». Il sapere dei «diretti interessati» servirebbe solo per apportare delle «testimonianze», e non delle analisi veritiere. Si partirebbe dall'idea che il sapere suppone una distanza assoluta nel rapporto con il proprio oggetto di studio, anche se essere direttamente interessati può far mettere in evidenza degli elementi che non sarebbero stati visti restando lontani. La sfida diventa allora quella di evitare di far vivere degli «oggetti parlati» ma piuttosto divenire e far divenire «oggetti parlanti». A questi primi divari si aggiunge il fenomeno dell' «essenzializzazione» del gruppo di appartenenza di ciascuno, per il quale si stigmatizzano alcuni gruppi, spesso in maniera negativa.

Il bisogno di ribanalizzare il dibattito

Come poter, in queste condizioni, relegare o sopprimere la violenza simbolica troppo presente nel dibattito di oggi? Come evitare quello che Bernard Noël chiama il «sensure», vale a dire non la privazione della parola, ma l'interdizione della «significazione», la «non resistenza al pensiero dominante»? Tanto più che, come sottolineano i partecipanti, al momento è difficile dibattere nei media delle condizioni mediatiche del dibattito. Ora, la libertà mediatica può implicare un certo «abuso» che converrebbe controllare.

In queste condizioni, si avrebbe bisogno di una moltitudine di format e di nuovi spazi per il dibattito, troppi di più dei loro stakeholders, dall'angolo caffè alle grandi sale conferenza. Secondo Saïd Bouamama, il dibattito dovrebbe anche «ribanalizzarsi», diventando ciò che può essere pur somigliando a ciò che potrebbe essere un semplice discorso in un pub popolare, senza appesantirlo. Bouamama aggiunge che la situazione del dibattito «è così peggiorata che bisognerà moltiplicare le esperienze per farlo rinascere». Ad esempio, creare degli spazi dove gli abitanti del quartiere potrebbero riunirsi e organizzarsi prima dell'assemblea di quartiere, bella iniziativa di democrazia partecipativa che a volte rischia di diventare un altro teatro per dibattiti disuguali e che vanno ad aggravare le stigmatizzazioni tradizionali. Prestare attenzione anche alla stigmatizzazione positiva, laddove si accordi troppa approvazione o ascolto a delle figure la cui qualità nel dibattito può a volte lasciare a desiderare.

In fondo, conclude Jean Bairon, la sfida è di creare le condizioni per le quali la ragion d'essere del dibattito possa risollevarsi, cioè affinché il dibattito «cambi qualcosa in noi, nelle nostre realtà d'appartenenza e in tutte le nostre differenze».

Translated from Pensée unique : ni idéaux ni débats