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La Lettonia dei rifugiati

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Roma

I lettoni hanno paura dei rifugiati, i rifugiati hanno paura della Lettonia

Poco tempo fa sono andato a Riga con una collega. Appena arrivati ha cominciato a dire che non sopportava il traffico e la confusione. Proprio non capivo cosa intendesse, non ho mai visto una capitale più tranquilla di questa.

La Lettonia è spopolata. I dati ufficiali parlano di più due milioni di abitanti, in realtà ce ne sono molti meno. Solo l’anno scorso il declino demografico ha segnato -14%. Questo paese è una foresta. Bella, verde, desolante.

I giovani sono quasi tutti in UK, Olanda, Irlanda o Belgio. Cercano opportunità che sanno di non poter trovare qua. Dopo anni di studio e impegno non si rassegnano a lavorare per pochi euro l’ora, senza mettere a frutto le proprie competenze. Lo stipendio minimo si aggira sui 2,50 euro l’ora. Un kebab grande ne costa 4,30. I conti non tornano.

Nonostante il grande calo demografico la maggioranza dei lettoni non vuole rifugiati. Quando il governo stipulò il contratto con l’Unione Europea per accogliere poche centinaia di migranti scoppiarono le proteste. E pensare che solo oggi in Italia ne sono arrivati più di mille.

Hanno paura degli stranieri, non per cattiveria quanto piuttosto per ignoranza. La xenofobia e il timore di possibili “invasioni” attraverso la frontiera russa, dove recentemente è stato costruito un muro, non si spiega. Incontrare persone di altre etnie è piuttosto raro, fare un paragone con i paesi dell’Europa occidentale non avrebbe nemmeno senso. L’unica città del Paese è Riga e, nonostante molti lettoni si ostinino a definirla grande e internazionale, lo è meno di Torino, Marsiglia o Manchester. La seconda città per dimensioni e importanza è Daugavpils, con 80.000 abitanti è più piccola di Udine.

Stesso discorso vale per i piccoli centri lettoni. La mia cittadina, Rēzekne, senza l’afflusso di giovani partecipanti ai progetti Erasmus+, studenti o volontari, non ospiterebbe stranieri. Perché non c’è lavoro, perché non ci sono le condizioni sociali e culturali per permettere un’accoglienza adeguata.

E qui veniamo al punto cruciale, il rapporto tra i lettoni e gli immigrati.

A Riga, precisamente al Cinnamon Hostel, ho incontrato Mohammed (nome di fantasia), uno dei pochissimi rifugiati afghani presenti in Lettonia. Appena ha saputo che sono italiano ha cominciato a chiedermi di tutto. A quel punto non sapevo più se ero io a intervistare lui o lui a intervistare me.

“Abito a Roma da anni, ma sono originario di Torino” gli dico

E lui “Bellissima Torino. L’Italia mi piace, soprattutto il nord. C’è lavoro, la sanità è pubblica, i rifugiati provenienti dal mondo arabo-musulmano sono tantissimi. Non come qua. Siamo solo otto afghani, senza possibilità concrete di trovare un impiego decente. Viviamo con i sussidi dell’Unione Europea. Ma io voglio andarmene dalla Lettonia. Sono ormai in questo ostello da mesi, aspetto solo i documenti per prendere il volo. Tanto siamo nell’Area Schengen, sono libero di viaggiare”

“Oltre al lavoro cosa non ti piace della Lettonia?”

Ride “Il clima è tremendo. Troppo freddo. Le persone ti guardano strano per strada, non sono abituate a vedere molti stranieri. La lingua è incomprensibile e inutile. Io vorrei studiare l’inglese, il francese o l’italiano, non il lettone. Però sono stato sfortunato e mi hanno assegnato qua. Un paese che non riesce nemmeno a mantenere i propri cittadini, figuriamoci i rifugiati”

“Se dovessi partire oggi dove andresti?”

“Ho un amico a Brescia, città bellissima. Anche lui era in Lettonia, ma appena si è ammalato ha lasciato il paese. Altri ragazzi gli hanno consigliato l’Italia. Là si è fatto operare gratuitamente mentre qui avrebbe dovuto spendere molti soldi (che non aveva). Poi ha trovato un lavoro e non è più tornato. Parla afgano e arabo tutti i giorni e durante le vacanze estive va in Liguria. E un vero italiano ora, perché da voi l’integrazione è possibile, non come in Lettonia”

“Prima di partire cosa farai?”

“I documenti non arrivano subito, già lo so. Sto seguendo un corso di lingua lettone organizzato dall’Unione Europea per noi migranti, ma contemporaneamente studio il russo da autodidatta. A Riga sono in tanti a parlarlo ed è utile per lavorare. Per il resto se trovo un impieguccio in un bar o in un ristorante bene, sennò sopravvivo con il sussidio fino al giorno della mia partenza”

Questa chiacchierata mi ha lasciato un sapore agrodolce in bocca.

Da un lato toccare con mano la realtà dei migranti non è cosa facile, dall’altro veder lodare così il mio paese dal quale siamo in tanti a fuggire mi ha fatto un certo effetto. Forse mi ha dato un po’ di fiducia, ha smosso in me la voglia di cercare soluzioni positive per fermare l’esodo dei miei connazionali.

Poi sono uscito con degli amici locali a prendere una birra e quando mi hanno chiesto a cosa pensassi ho risposto semplicemente

“I lettoni hanno paura dei rifugiati, i rifugiati hanno paura della Lettonia”

Story by

Bernardo Bertenasco

Venuto al mondo nell’anno della fine dei comunismi, sono sempre stato un curioso infaticabile e irreprensibile. Torinese per nascita, ho vissuto a Roma, a Bruxelles e in Lettonia. Al momento mi trovo in Argentina, dove lavoro all’università di Mendoza. Scrivo da quando ho sedici anni, non ne posso fare a meno. Il mio primo romanzo si intitola "Ovunque tu sia" (streetlib, amazon, ibs, libreria universitaria)