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La legge è uguale per (quasi) tutti, storie di omicidi in divisa: Abou Bakari Tandia

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Firenze

La nostra inchiesta va avanti ed allunga il proprio sguardo oltralpe, per vedere come si sono concluse simili vicende in altri Paesi europei. Questa volta, dopo aver narrato di Cucchi ed Eliantonio e di Rasman e Aldrovandi, siamo in Francia e vogliamo raccontarvi la storia di Abou Bakari Tandia. Un altro morto di un altro Stato. Stati che però si assomigliano, a quanto pare.

Parte IV, continua...

Sembra però che sui casi di morte a causa delle proprie forze dell'ordine non sia solo l'Italia ad essere specializzata a nascondere gli scheletri nell'armadio, al contrario pare che questa prassi di lasciare cadaveri alle proprie spalle da parte delle forze dell'ordine coprendo il tutto con omertà, depistaggi e con false e meschine ricostruzioni sia ben consolidata un po' dappertutto. Dopo avervi raccontato di Cucchi ed Eliantonio e di Rasman e Aldrovandi nelle scorse puntate, oggi ci trasferiamo in Francia. Eppure forse non vi sembrerà di aver cambiato Paese, tanto simile ai casi precedenti vi sembrerà ciò che leggerete. In fondo, come si suol dire, "tutto il mondo è Paese"...

In Francia

Anche in Francia si contano numerosissimi episodi di “violenze in divisa”, che si concludono molto spesso con l'oblio e l'omertà giudiziaria. E' interessante notare come gran parte di questi casi abbiano come protagonisti, loro malgrado, cittadini di origine straniera, africana il più delle volte. Di frequente, infatti, la polizia d'oltralpe è stata fortemente accusata di razzismo.

Il caso di Abou Bakari Tandia

Abou Bakari è un cittadino maliano che vive a Parigi già da tredici anni, pur non essendo in regola per la legislazione transalpina, quando la sera del 5 dicembre 2004 viene fermato per strada da una pattuglia di poliziotti che, trovandolo senza documenti, decide di portarlo in commissariato, a Courbevoie, per accertare della sua identità. In cella, però, Abou ci arriva in condizioni cliniche disastrose, tant'è che, dopo essere caduto in coma, verso la mezzanotte viene condotto d'urgenza prima all'ospedale Salpêtrière e poi a l'ospedale Louis-Mourier a Colombes. I familiari vengono avvertiti della situazione solamente quattro giorni più tardi e, pur essendosi recati subito all'ospedale insieme al console del Mali, vengono tenuti fuori dalla sala dove è ricoverato Bakari in quanto egli si trova ancora in custodia cautelare per la polizia. Purtroppo Abou non si sveglierà più dal coma e muore il 24 gennaio 2005 senza che i familiari siano stati informati a dovere circa il suo percorso clinico, nemmeno quando richiedono di sapere le cause della morte del proprio caro.

Le ricostruzioni ufficiali

L'autopsia, infatti, rivela che la causa della morte è uno “scompenso viscerale” ma non specifica cosa lo abbia provocato. Eppure osservando il corpo di Bakari risulta non molto difficile intuirne le cause: era gonfio, pieno di lividi e di ematomi, con una grossa ferita circolare sul petto. Il rapporto medico, però, aveva “dimenticato” di constatare alcune lesioni e ferite ben visibili sulla testa in quanto la polizia aveva sostenuto che il coma era stato provocato da Abou stesso dopo aver deliberatamente colpito la testa contro il muro della sua cella in preda ad uno scatto d'ira. Fin da subito i familiari non hanno creduto alla versione ufficiale fornita dalle forze dell'ordine, essendo troppi i fattori che rendevano molto più verosimile l'ipotesi di violenze per loro stessa mano. A marzo però il procuratore di Nanterre chiude il caso senza ulteriori azioni, ritenendo ingiustificata l'accusa dei familiari in quanto non sarebbero riscontrabili prove di un comportamento criminoso da parte della polizia.

La battaglia prosegue tra mille menzogne

Tuttavia la famiglia di Abou non si arrende e decide di presentare una denuncia “per atti di torture e barbarie che ne hanno provocato la morte”. Il caso viene quindi riaperto, pur con intralci e copertura delle prove, come ad esempio la mancata possibilità di visionare le riprese della telecamera di sorveglianza della cella di Bakari, che proprio la sera del suo arresto non ha funzionato a causa dei cavi staccati da un detenuto stando alla versione dei poliziotti. Trascorrono due anni prima che le indagini subiscano un'accelerata, ossia quando la famiglia Bakari decide di cambiare avvocato e quando questo fa pressione affinchè possa utilizzare i vestiti indossati da Abou la sera dell'arresto come prova, dal momento che non erano mai stati restituiti ai familiari e nessuno li aveva mai potuti vedere. Solamente i pantaloni ed una giacca a maniche corte furono riconsegnati, ma non una maglietta o un maglione da cui sarebbe potuto essere più chiaro cosa avesse provocato la ferita sul petto di Abou. Successivamente poi l'avvocato riuscì a dimostrare che la telecamera di sorveglianza non aveva subito alcun danneggiamento, dal momento che nessun tecnico era stato chiamato per ripararla nei giorni successivi e che nessuno avrebbe potuto strappare i fili vista la sua posizione, facendo incriminare uno dei poliziotti per falsa testimonianza. Come se non bastasse, pure la cartella clinica di Abou venne tenuta nascosta il più possibile (fin dai giorni successivi la sua morte) dicendo che era stata persa dall'ospedale, salvo poi tornare fuori nel gennaio 2009 quando l'avvocato decide di presentare una denuncia per “distruzione di prove” nei confronti dell'ospedale stesso.

La sentenza

Nonostante questi progressi, però, il 21 marzo 2013 la sentenza definitiva del giudice dichiara il proscioglimento per mancanza di prove per tutti gli indagati, in quanto mancherebbero i presupposti per poter accertare la responsabilità della polizia nella morte di Abou. Dopo otto lunghissimi anni, fatti di bugie, intralci e menzogne, i suoi familiari rimangono ancora senza sapere la verità di quella notte, quando il loro caro sarebbe caduto in coma e poi di conseguenza deceduto a causa di atti di autolesionismo

La settimana prossima proseguiremo il nostro approfondimento, sempre in Francia. Sempre con una brutta vecchia storia.