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Jihad, il musical. Se l'Islam è in salsa kitsch

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In scena al Festival di Edimburgo l'opera di Zoe Samuel diverte ma non convince.

Scritto dalla londinese Zoe Samuel Jihad: The Musical ha catturato l’attenzione dei media europei durante le tre settimane del Festival di Fringe ad Edimburgo, svoltosi dal 5 al 27 agosto 2007).

Allestito su un piccolo palco a Chambers Street, tra il famoso Royal Mile (la strada più amata dai turisti ndr), e la piccola statua di bronzo del cane Bobby, lo spettacolo è durato un’ora e quindici minuti e ha lasciato un certo amaro in bocca sul finale. Nonostante il tutto esaurito e l'interesse mediatico, (è stato giudicato tra i 5 migliori spettacoli del Festival, della "C Venues" categoria C dei nuovi programmi internazionali) non c’era tanta gente. Il palco era spoglio e poco attraente, con solo un pianista vicino alla platea. Aggiungiamo la poca pubblicità per le strade della città e sì può spiegare la scarsa affluenza in questa giornata di inizio Festival.

La Jihad è di moda

Nonostante il sottotono iniziale, il musical non è certo passato inosservato. «C’era un gran fermento tra i giornalisti europei», ricorda Anne McMeekin, l’addetta stampa del Festival. «Tedeschi e svedesi erano certi che l’opera avrebbe destato scalpore.» «La reazione del pubblico e dei corrispondenti è stata positiva», aggiunge Lisa Kingsnorth, addetta all’ufficio stampa del musical. «In particolare i tedeschi lo hanno trovato fantastico!» La Silk Circle Production non è la prima compagnia americana ad usare il musical per affrontare questo tema. Già Rick Crom, con il suo NEWSical the musical messo in scena nel 2006 a Broadway, si ispirava all’attualità in un numero ballato e cantato chiamato Jihad Babies. E chi non ricorda il video I wanna be like Osama su YouTube che ricevette più di 150mila visite e l’attenzione dei media?

Da coltivatore di papaveri a terrorista

Afghanistan, un Paese immerso nel nulla. Sayd, un coltivatore di papavero senza speranze, interpretato da Benjamin Scheuer, si dirige negli Stati Uniti in cerca di una vita migliore e con la segreta speranza di diventare famoso. Là incontrerà una cellula terroristica che tenterà di convincerlo a sacrificarsi durante un attentato in nome dell’Islam. Completano la scena Foxy Redstate, un reporter americano più ossessionato dal trucco e dalla fama che dalla sicurezza del proprio Paese e un terrorista alla ricerca della fama planetaria ottenuta da Osama Bin Laden. C’è spazio anche per un francese che brandisce una baguette durante il numero musicale We turned and ran in franglish, un misto di inglese e francese.

Lo spettacolo mantiene sempre un tono ironico, ma gli attori non osano mai come potrebbero. Le canzoni non coinvolgono come la grande attesa faceva sperare. Il pubblico gradisce e gli attori usano tutta la loro immaginazione per nascondere l'allestimento piuttosto scarno. Tanto che ho pensato che i pochi spettatori musulmani che hanno abbandonato la sala siano stati colpiti più dalla noia che infastiditi dalle provocazioni: Non proprio un bel segno per uno spettacolo che prometteva di mettere a dura prova i nervi. Anche Kingsnorth è dello stesso avviso: «Come sosteneva il critico Robert Dawson-Scott del Times, il musical non era più offensivo di Fiddler on the roof. Era semplicemente un'efficace satira sul terrorismo, le manie per la sicurezza dell’Occidente e i suoi effetti sulla nostra libertà.»

Quei luccicanti burka rosa

«Lo spettacolo è andato in scena in Scozia senza troppo clamore», dice McMeekin. «C’è stata solo una telefonata di uno spettatore che, sebbene non arrabbiato, ha trovato il musical discutibile.» «Le uniche persone che lo immaginavano scandaloso erano quelle che non l’avevano ancora visto, con giudizi dati sulla base di opinioni altrui e ispirati dal titolo», sostiene Kingsnorth.

Anche Luqman Ali, direttore artistico, ha conosciuto una vicenda simile quando nel dicembre 2005, la sua compagnia londinese Khayaal mise in scena The truth about your father dove una donna suicida affrontava il tema della Jihad. «Qualcuno chiamò per chiederci perché discutevamo di questo sul palco. Ma solo una minoranza traeva delle conclusioni senza prima aver visto la commedia.»

Ali è stato dieci anni fa co-fondatore di questa compagnia teatrale unica nel suo genere in Europa che sviluppa, produce ed esplora l’eredità culturale e letteraria del mondo musulmano. «Dopo gli attentati di Londra, ci siamo concentrati sulla sfera più estremista». Ali deve ancora vedere il musical, ma crede che «un artista musulmano che affronta questi temi non avrà un grande interesse nel svilupparli a fondo. Realizzano un’opera solo per ottenere un gesto di approvazione dal pubblico sfruttando temi noti. Così si rinforzano gli stereotipi e questo può essere controproducente.» Per esempio, enfatizzando il significato della parola Jihad, che non è guerra santa ma la battaglia per superare il conflitto.

Nella storia dei musical, i temi scottanti sono all'ordine del giorno: gli ispanici sconfiggono i bianchi (West side story, 1957), Gesù diventa una rock star (Jesus Christ superstar, 1971) e due produttori inscenano un'opera sul nazismo (The producers, 2001). Quindi perché non seguire la tradizione con l’Islam? Jihad: il musical mette deliberatamente in scena un conflitto internazionale in salsa kitsch, con tanto di luccicanti burka rosa e si dimostra senza dubbio una scelta intelligente: sia ad Occidente che a Oriente questi temi fanno vendere. E gli autori fanno sapere che delle trattative sono in corso con i produttori negli Stati Uniti e nel Regno Unito. Come da copione.

Foto nel testo (2007 Kingsnorth and Clements Limited)

Il critico londinese: «non é vera satira»

Sebbene il Festival di Fringe possa sembrare un posto adatto per diffondere messaggi politici, la realtà è che tutti i personaggi più importanti, scrittori, attori e le compagnie teatrali più all'avanguardia, tendono a non esibirsi qui.

Jihad: The Musical è sicuramente una bella pièce, ma resta sempre un musical in classico stile Broadway, condito di ironia quanto basta per strappare gli applausi del pubblico. Puro intrattenimento. Gli autori del musical infatti non possono certo essere definiti esperti dell’Afghanistan di oggi, di terrorismo internazionale, teologia islamica o demolizione di grattacieli newyorkesi. Meglio dar loro un bel po' di soldi per tirare a lucido il loro show e varcare le scene del West End di Londra per sei mesi. E alla fine partire in tournée per cinque anni tra i teatrini di New York. Solo allora saranno contenti.

Si otterrebbe un risultato diverso se portassimo Jihad: The Musical a Bradford, centro principale della comunità islamica britannica, oppure a New York nella zona del World Trade Center. Ma la rabbia degli abitanti che ne seguirebbe sarebbe frutto solo della sbagliata scelta dei luoghi e non rispecchierebbe il reale potenziale di denuncia di un tema come quello che è sul tavolo. Essere polemici e creare scompiglio, non è sempre il modo migliore per fare il tutto esaurito.

Si parla di fondamentalismo islamico ma in questo show nulla è fondamentalmente, perdonatemi il gioco di parole, irrispettoso verso l’Islam. Ad esempio, le donne portano sempe il velo e sono vestite pudicamente. Nella mia recensione per il settimanale teatrale The Stage ho potuto dire che le attrici "ammiccano seducenti dietro il velo" certo di non superare le barriere della morale islamica. Inoltre il personaggio principale lascia la sua disastrata terra natale, l’Afghanistan, per cercare fortuna nella Grande Mela senza mai perdere nessuno dei tratti originali della sua cultura. Si balla, si canta e non c'è l'ombra di una satira intelligente. I veri nodi dell’11 settembre sono dimenticati.

di Nick Awde, critico teatrale di The Stage e autore del libro Women in Islam

Translated from Jihad: the Musical