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Jackie: la rivoluzione del biopic per Pablo Larrain

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Cultura

Il regista cileno di Post Mortem e Tony Manero realizza un nuovo viaggio: la voce è quella di Jacqueline Kennedy, lo sguardo appartiene ad un filmmaker a cui interessa scandagliare momento per momento la storia.

I will settle for a story that’s believable

Cosa lega il filmmaker cileno alla first lady più discussa della storia degli Stati Uniti?

I film di Pablo Larrain si contraddistinguono immancabilmente per una lucidità rara che rende leggibili fatti storici di cui è complesso avere una visione unidirezionale. È stato così per la trilogia che ha ripercorso quindici anni di storia nazionale del suo paese: inizia nel 2007 con Tony Manero, nel 2010 prosegue con Post Mortem e il golpe cileno del 1973 osservato dal punto di vista di un funzionario dell'obitorio di Santiago e termina nel 2012 con No: i giorni dell’arcobaleno, durante i giorni del Plebiscito del 1988 e la fine della dittatura di Pinochet, determinata dall’incisivo scontro mediatico dovuto alla campagna gestita dal giovane pubblicitario René Saavedra.  Continua la sua lettura della storia con Neruda: la scelta dell’esilio e il legame tra la produzione poetica e il triste scenario di corruzione e colpi di stato che l’ha vista crescere.

Perché ora il suo obiettivo si sposta su Jacqueline Kennedy

When something is written down, does that make it true?

Cos’è la storia? Ciò che è realmente accaduto o ciò che ricordiamo e scegliamo di raccontare?

Tutti i personaggi di Larrain attraversano la storia ma la raccontano tramite ciò che vivono, il loro punto di vista si fonde con i fatti e il risultato è una nuova storia. Jackie risulta distante solo in apparenza poiché non è altro che il racconto di un’individualità che si intreccia agli eventi che tutti già conoscono.

La first lady di Larrain è perfetta. Lo è perchè l’interpretazione di Natalie Portman è studiata nei minimi dettagli; dalla tonalità della voce al modo di camminare, i suoi movimenti si sovrappongono in modo così fluido ai documenti di repertorio che a tratti non è immediato distinguere la cronaca dal remake. Ma non è solo una questione di recitazione e buona scrittura (ha vinto il Premio per la migliore sceneggiatura alla 73esima Mostra del Cinema di Venezia): la Jackie che determina il racconto è perfetta in quanto imperfetta, e per questo credibile.

È disorientata e disorientante, divisa tra una sofferenza viscerale che rapisce lo spettatore liberandolo solo alla fine del film e una voglia di ricostruire l’immagine del presidente come se fosse il suo lavoro, l’ultimo da completare per la Casa Bianca e il popolo americano. 

There was Camelot

Pablo Larrain è nato nel 1976, come tanti altri dell’omicidio a Dallas ha letto resoconti, libri, interviste, assistito a reportage e documentari. È un momento che altri registi come Oliver Stone o Ridley Scott hanno scelto di rappresentare, con più o meno efficacia (e successo). La novità è configurare un universo perfetto in cui le apparenze diventano memoria, ed inserire una nota fuori posto che riesca a rendere l’evento nuovamente doloroso e vivo.

Nel film Jackie viene intervistata da un giornalista il cui personaggio si ispira a quello realmente esistito di Theodore H. White, il quale pubblicò il 6 dicembre del 1963 "For president Kennedy: An Epilogue” (qui potete trovare il link), e l’articolo si conclude con le parole: "For one brief shining moment there was Camelot."

Ricordando il musical Camelot, molto amato da suo marito, Jacqueline Kennedy, first lady per poco più di due anni, paragona gli anni passati alla Casa Bianca a quelli della splendente Camelot; nella sua storia John Fitzgerald Kennedy non è solo il presidente della crisi missilistica, degli esperimenti nucleari  e delle promesse non mantenute, bensì un emblema ideale da commemorare come mai prima d’ora.

Jackie Kennedy delinea l’immagine di un mito eterno, Pablo Larrain riesce a rinnovare il mito.