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Gli Stati Uniti che abbiamo e quelli di cui abbiamo bisogno

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La crisi irachena insegna: il mondo ha bisogno di un’alleanza nuova e più forte tra gli Stati Uniti d’America e gli Stati Uniti d’Europa.

Alcuni sostengono, dentro e fuori la Convenzione sul futuro dell’Unione, che la politica estera europea o sarà antiamericana o non sarà. In realtà la crisi irachena non solo falsifica questa tesi in maniera più che convincente, ma ci permette di affermare con più forza che nessuna politica estera comune è possibile sulla base di una contrapposizione (o di un bilanciamento, per usare un’espressione di Romano Prodi) tra UE e Stati Uniti d’America.

Altri hanno scritto che la guerra in Iraq ha diviso l’Europa ed ha unito gli europei. Ma un’opinione pubblica di massa è tale quando si nutre di conoscenza e dibattito: l’opinione pubblica si forma solo quando si informa. Ma le manifestazioni pacifiste sono forse state solo la reazione in default mode di chi teme istintivamente la guerra (e in maniera del tutto comprensibile), una reazione pre-politica, tipica di uno spazio pubblico europeo che reclama informazione, dibattito, verità. Gli europei gridavano PACE, PAIX, PEACE, PAZ, ma chiedevano solo di capirci qualcosa di più, di poter conoscere, di capire e di esprimersi davvero con una sola lingua.

La politica ovvero le politiche europee sulla questione irachena sono state dominate da due tendenze e da una posizione intermedia ed effimera.

La linea franco-tedesca (e belga) è quella che ha oggettivamente (si sarebbe detto un tempo) incarnato le speranze e gli umori del cosiddetto popolo della pace e che non ha esitato a cercare la contrapposizione nei confronti dell’amministrazione Bush.

Il Regno Unito, la Spagna ed i paesi dell’Europa ex comunista hanno invece, e con diversi obiettivi, preferito partecipare o dare il loro sostegno alla coalizione che si apprestava a liberare l’Iraq dalla dittatura di Saddam Hussein.

Infine, isolata, la linea del governo italiano: una non belligeranza tentennante tra la fedeltà d’oltre-Atlantico, la fede d’oltre-Tevere e la debolezza nei confronti della piazza, generatrice dei peggiori disastri della politica estera italiana, dal primo conflitto mondiale ad oggi.

Il risultato è stato lo stallo della PESC, l’impossibilità non solo di giungere a una posizione comune ed alternativa a quelle di partenza, ma anche di trovare il più banale dei compromessi se non su frasi retoriche e prive di significato politico. E’ forse “politicamente scorretto” dirlo, ma mentre a Bruxelles ci si divideva e ci si contava, la Storia andava avanti inesorabilmente, con la liberazione ed i morti di Baghdad, con le speranze ed i timori del mondo arabo, con la potenza invincibile e gli errori inevitabili dell’armata americana, con le riflessioni e le ambizioni dei think tanks neoconservatori americani, con lo iato sempre più aspro tra il peso economico dell’Europa e la sua inesistenza politica.

La grande questione posta dagli americani in Iraq non è quella del disarmo, seppellita già prima delle armi di distruzione di massa e degli “eroici” ispettori Onu.

Il grande problema non è quello dell’imperialismo militare americano che l’Europa non potrà colmare se non convertendo le proprie spese sociali in spese militari: paradosso questo davvero curioso per chi si reclama pacifista in nome dell’antimperialismo.

La questione di fondo non è il “diritto internazionale” che l’una parte e l’altra brandiscono (Hobbes insegna!) come armi contundenti a seconda delle convenienze del momento: del resto l’Onu non è da riformare perché ci sono gli Stati Uniti, ma perché il 60% dei suoi membri non sono democratici e ne violano lo spirito fondante ogni giorno che passa.

Gli Stati Uniti hanno posto al Mondo ed all’Europa la questione dell’apertura di una nuova fase di democratizzazione del nostro pianeta. Una nuova democratizzazione dopo quelle post-coloniali, post-belliche e post guerra fredda. Ma mentre gli Usa parlano di democratizzare il Medio Oriente, in Europa si difende la Politica Agricola Comune (PAC) e si innalza la nuova frontiera meridionale con l’eufemistico nome di Partenariato euro-mediterraneo.

L’opzione antiamericana rinuncia a vedere i vantaggi per l’Europa di un accelerato ed effettivo processo di democratizzazione dei paesi della sponda sud del Mediterraneo, spinge alla creazione di un nocciolo duro per la politica estera comune dominato dall’asse renano e destinato ad essere un mero amplificatore di interessi nazionali, spinge l’Europa (come la crisi irachena ci insegna) fuori dalla Storia.

Non ci serve un’America diversa, diversa deve essere l’Europa. Gli Stati Uniti che abbiamo sono quelli che intendono esportare la democrazia e difendere i propri interessi nel mondo senza rinunziare all’uso delle armi. Gli Stati Uniti di cui abbiamo bisogno sono gli Stati Uniti d’Europa, protagonisti dei processi di democratizzazione, capaci di sviluppare mezzi e politiche nonviolenti, in grado di trasformarsi da retroguardia militare del mondo occidentale in avanguardia nonviolenta per la liberazione dei miliardi di donne e di uomini oppressi dai regimi che la nostra amata “comunità internazionale” continua a finanziare.

Tutto ciò sarà possibile solo se l’Europa si unirà e tornerà a parlare con l’America, solo se la fine della guerra fredda spingerà qualcuno ad un aggiornamento ed a una integrazione sempre più serrata dell’Europa e dell’alleanza atlantica.