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Giulio Regeni: di sicuro c'è solo che è morto

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società

Il 25 gennaio 2016 il ricercatore italiano Giulio Regeni scompare al Cairo, in Egitto. Il 3 febbraio il suo cadavere viene ritrovato sotto un cavalcavia, con evidenti segni di tortura. Indignazione istituzionale, rabbia e sgomento hanno segnato queste settimane. Ma dopo oltre un mese dal ritrovamento di Giulio, la verità sulla sua morte e su cosa sia davvero accaduto stenta a farsi strada.

In un mese si può fare molto. Un corso intensivo di lingua, un lungo viaggio all’estero, ma anche avviare concretamente un’indagine per omicidio.

È passato poco più di un mese dal ritrovamento del corpo senza vita di Giulio Regeni, il ricercatore italiano ucciso ed abbandonato sotto un cavalcavia dell’autostrada che collega il Cairo ad Alessandria, dopo essere stato torturato per svariati giorni. E le indagini, dopo un mese, sembrano iniziare a muoversi solo ora.

La storia dall'inizio

Giulio Regeni, 28 anni, dottorando dell’Università di Cambridge e residente al Cairo per scrivere una tesi sui movimenti sindacali indipendenti in Egitto, sparisce la sera del 25 gennaio 2016. La vicenda si conclude una settimana dopo in modo agghiacciante: il 3 febbraio il corpo di Giulio è ritrovato senza vita, con evidenti tracce di supplizi avvenuti prima della morte.

Da subito le autorità egiziane suggeriscono la tesi che il ricercatore fosse in contatto con ambienti del crimine locale, o che si sia trattato di una vendetta. Tesi al fresco profumo di depistaggio, immediatamente smontata da chi gli viveva intorno e poi dall’autopsia effettuata dalle autorità italiane: nessuna traccia di sostanze stupefacenti nel corpo, ma tracce di ripetuti supplizi e torture che si sarebbero protratte per almeno 67 giorni. Una tortura sistematica che solo la Sicurezza Nazionale egiziana (Amn el-Dawla) sarebbe stata in grado di mettere in atto, come abitualmente fa con i propri prigionieri.

Secondo la Procura di Roma, che indaga sull'omicidio, un fatto centrale è che «Giulio Regeni non era sotto controllo prima del 25 gennaio, e che le cause della sua uccisione sono da riscontrare nell'ambiente della ricerca che stava svolgendo sui sindacati indipendenti egiziani», commenta così Giuseppe Acconcia, giornalista de Il manifesto e ricercatore specializzato in Medio Oriente, intervistato da cafèbabel. «Questo cancella la più infamante delle accuse, quella che molti egiziani in verità muovono a qualsiasi straniero che sieda in un bar del Cairo insieme ad altri locali: quella di essere una spia. Giulio era un ricercatore serio e meticoloso, una "avanguardia per l'Europa"». 

Un bersaglio mirato allora? Difficile. Tuttavia, secondo diverse ricostruzioni, emergono particolari inquietanti. «Nella cerchia degli amici di Giulio tutti temevano di essere stati notati e fotografati per aver partecipato all'assemblea sindacale dello scorso 11 dicembre. O agli incontri con alcuni sindacalisti, Fatima Ramadan e Amr Assad, tra i contatti più stabili di Giulio Regeni,» afferma Acconcia. Lo stesso Giulio, in un messaggio ad un amico, riporta di essere stato fotografato da «individui sospetti» durante quell'assemblea di dicembre. E sembrerebbe inoltre che nei giorni precedenti al 25 gennaio la polizia abbia cercato Giulio a casa, minacciando anche la perquisizione dell'abitazione.

I molti interrogativi

«"Giulio parlava arabo benissimo. E poteva essere scambiato per un egiziano," ci ha spiegato un suo amico. È quindi plausibile che Giulio Regeni sia stato fermato quella sera in un controllo generico,» queste le parole di Acconcia. «Nelle stesse ore 5mila abitazioni sono state perquisite in Egitto, poiché era il quinto anniversario dalle proteste in piazza Tahrir e si temevano manifestazioni, che non ci sono state». Tuttavia rimangono alcuni punti non chiari. Un soggetto come Giulio Regeni avrebbe dovuto essere comunque "protetto" dal suo passaporto: l'arresto, la tortura, l’uccisione di un accademico straniero avrebbero chiaramente gettato (come sta accadendo) una sgradita luce sull’operato del Governo egiziano volto a "contenere" il dissenso: un contenimento fatto di sangue, torture e barbarie. 

Un errore quindi? Diverse a questo punto le possibilità. «La nazionalità italiana, la reticenza nel coinvolgere amici ricercatori o attivisti, devono aver innescato il passaggio di mano da un apparato all'altro della Sicurezza egiziana fino al luogo della tortura,» sostiene Acconcia. Oppure un tardivo riconoscimento dell'errore commesso: i supplizi sarebbero iniziati ben prima che gli aguzzini si rendessero conto di chi avevano realmente tra le mani. E prima che contestualmente realizzassero che una persona così non la si poteva semplicemente lasciare andare: se un morto attira attenzione, molta di più ne richiama un accademico torturato che va raccontando al mondo cosa succede nelle mani della Sicurezza egiziana. «O addirittura,» sempre secondo Acconcia, «qualora non sia mai stato identificato come straniero, si potrebbe ipotizzare lo scambio di persona con uno qualsiasi dei suoi amici egiziani, considerati come oppositori politici».

Sarebbe in ogni caso responsabile il Governo egiziano di Al-Sisi. Salito al potere nel 2013 dopo un colpo di Stato ai danni del democraticaticamente eletto Morsi, Al-Sisi in questi tre anni si è distinto per una feroce repressione degli oppositori politici, propagandando un clima di isteria collettiva nei confronti degli stranieri, sfociato spesso in accuse di spionaggio o sentimento antigovernativo. Anche se di errore si trattasse, questo non sarebbe mai accaduto in un Paese dove rapimenti, torture ed omicidi di accademici, attivisti e giornalisti non sono all’ordine del giorno. I numeri sono agghiaccianti: nel solo 2015 sarebbero morti 474 egiziani nelle mani delle forze di sicurezza, ed oltre 700 sarebbero state le torture.

Verità per Giulio

Le reazioni in Italia non si sono fatte attendere, dai post sui social media fino al sit-in organizzato da Amnesty International di fronte all'Ambasciata egiziana a Roma. E questo sembra aver generato una maggiore collaborazione da parte degli egiziani con il team investigativo italiano inviato al Cairo.

Tuttavia nessuno nel Governo Renzi ha accusato il Cairo di essere anche solo indirettamente responsabile, fomentando il clima di sospetto e caccia allo straniero, o i metodi da Guantanamo generalmente utilizzati da Amn el-Dawla. Nulla di tutto ciò. Solo una ferma (quantomai generica) richiesta di identificare i responsabili, con nomi e cognomi. Nessuna apparente reazione c'è stata nemmeno alla finora scarsa collaborazione delle autorità egiziane con gli investigatori italiani. E non c’è alcun segnale che, a parte la tipica (e dovuta) retorica di circostanza, il Governo italiano sia pronto ad una reale pressione diplomatica sull’Egitto. Al politichese, si aggiungono gesti dall'alto valore simbolico: il Parlamento europeo ha appena votato una risoluzione che "condanna con forza la tortura e l'assassinio del cittadino europeo Giulio Regeni". Infine, il 9 marzo, Paola e Claudio Regeni, i genitori di Giulio, sono stati ricevuti dal presidente della Repubblica Mattarella.

Diplomazia e mancanza di polso quindi? Non solo. Due punti meriterebbero attenzione. Primo: la compagnia petrolifera ENI, controllata ancora in parte dal Tesoro italiano, ha annunciato lo scorso anno la scoperta di un enorme giacimento di gas naturale in territorio egiziano, che potrebbe soddisfare il fabbisogno del Paese nordafricano per i prossimi decenni. ENI ha promosso un enorme piano di sviluppo dell’area, con degli altrettanto immensi ritorni economici per l’Egitto e anche per l'Italia. Una situazione dove tutti vincono, in altre parole. Su richiesta della famiglia Regeni la stessa ENI ha dichiarato di volere una verità chiara sulla vicenda, ma l'intero investimento ammonta a circa 7 miliardi di euro: difficile rinunciare ad una possibilità di questa entità.

Secondo: l’Egitto è un tassello geopolitico fondamentale anche in chiave anti-ISIS in Libia, visto che costituirebbe un importantissimo appoggio logistico nel caso di un eventuale intervento militare. Forse troppo importante per sollevare un polverone diplomatico, mettendo l'Egitto di fronte alle proprie responsabilità. D'altro canto non è possibile nemmeno ignorare gli affari. Pecunia non olet. Ma il sangue sì, eccome. Soprattutto quello rappreso di un 28enne, trovato morto sotto un cavalcavia dell’autostrada che collega il Cairo ad Alessandria. Che la terra ti sia lieve, Giulio.