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Felicemente instabili

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Roma

Di stabili vi sono solo i ruoli che ci auto-attribuiamo, le cristallizzazioni sociali, economiche e culturali nelle quali ci irrigidiamo, precludendoci così la possibilità del vero incontro, dell'errore costruttivo, dell’esperienza pura 

Giovani senza meta, avvolti in un piacevole ed inesorabile declino.

La crisi dei valori, il crack della borsa, i voucher nelle tasche.

Siamo la generazione flessibile per eccellenza. Quella delle stanze condivise, della sharing economy, del lavoro “oggi sì, domani forse”, del matrimonio che possiede il fascino delle antiche usanze. Quella stabilità economica ed emotiva in fondo ci fa un po’ paura, ammettiamolo. La prospettiva di casa, mutuo, cane, famiglia ci ricorda il glorioso passato, con un retrogusto agrodolce che non siamo in grado di decifrare del  tutto. Potremmo e non vogliamo o vorremmo e non possiamo.

Serenamente instabili o inconsapevolmente indottrinati.

Viziati ma non troppo, determinati ma non abbastanza, intraprendenti quanto basta.

Nel vortice degli stages e del lavoro non pagato, teoricamente non avremmo nulla da perdere, né da guadagnare. Potremmo opporci al sistema per diventare domani coloro contro i quali lottiamo oggi. Però forse siamo entrati in una nuova era. Quella in cui “viviamo basso e pensiamo alto”.

Crescita, PIL, progresso: parole vuote, retaggi di un consumismo desueto che non ha nessun legame con la nostra felicità, con la nostra umanità.

Qualcosa dalla crisi del 2008 abbiamo imparato, ma non abbastanza. Conosciamo ormai i limiti del sistema economico in cui viviamo, involuzione sociale presentataci come panacea di tutti i mali. Vediamo la povertà che cresce, l’inefficienza del welfare, gli effetti delle guerre sotto forma di migranti. Lo scollamento della stampa e della politica dalle nostre vite, il fiorire di un numero indeterminato di populismi. Autoritario, regionale, webete.

Siamo tutti, almeno segretamente, populisti.

La banalizzazione mediatica vorrebbe convincerci della possibilità di cambiare il paese con un sì o con un no. Ma sappiamo che realtà è sempre sinonimo di complessità.

Non siamo riusciti tuttavia ad affrancarci da una narrativa del reale che con questo non ha nulla a che vedere. Continuamo a perseguire un’indefinita perfezione, senza renderci conto che non ha nessun legame con la nostra umanità. Continuiamo a prestarci a lavori che non ci interessano pensando di ricevere in cambio, in mancanza di denaro, un valido riconoscimento sociale. Questo però, oltre a non placare la nostra fame, non placherà il nostro recondito desiderio, quello più nascosto, puro, onesto.

Continuiamo a sbandierare i nostri successi più o meno immaginari sui social, dando adito a quel grande processo di rimozione collettiva nella quale non c’è spazio per la tristezza, il sacrificio, la difficoltà. Seguitiamo a non conferire il giusto valore alla gratuità, fingendo di non sapere che se non fosse per quella non saremmo qua. Ci ostiniamo a voler eliminare gli imprevisti dalle nostre esistenze.

Vogliamo controllare tutto, pianificare lo studio, il lavoro, il tempo libero, le vacanze. Non accettiamo il fatto che le esperienze più belle sono sempre quelle non previste. Proviamo a razionalizzare anche l’amore, l’amicizia, la musica, il sesso. Ci dimentichiamo che la nostra stessa vita è molto spesso frutto di un imprevisto.

Forse siamo nati in una birreria o sotto un tavolo. Di certo se ci avessero pensato troppo, calibrando il rapporto costi-benefici, non avremmo mai visto la luce. O magari vivremmo in un mondo di ingegneri puntigliosi. Chissà.

Dimentichiamo quasi sempre che la leggerezza scaturisce dalla consapevolezza e dalla conoscenza di sé, non dall’apatia o dall’evasione.

Ma è proprio la consapevolezza dell’irraggiungibilità della stabilità che mi rende leggero oggi. Il sapere che non esiste altro al di fuori del presente, della straordinarietà del quotidiano.

Un bicchiere di vino forte non ci metterà mai di fronte al nostro io quanto una tisana leggera. Magari bevuta in silenzio.

In fondo la vita è questo, adattarsi continuamente alle contingenze, per definizione fluttuanti: l’antitesi della stabilità.

Insomma fino a qualche anno fa mi chiedevo quando sarebbe arrivata l’agognata stabilità, poi ho capito che non esiste. Oggi vivo benissimo.

Perché di stabili vi sono solo i ruoli che ci auto-attribuiamo, le cristallizzazioni sociali, economiche e culturali nelle quali ci irrigidiamo, precludendoci così la possibilità del vero incontro, dell’errore costruttivo, dell’esperienza pura.

Fallaci sovrastrutture che ci costringono alla mancanza di spontaneità, all’emarginazione, all’analfabetismo comunicativo.

Story by

Bernardo Bertenasco

Venuto al mondo nell’anno della fine dei comunismi, sono sempre stato un curioso infaticabile e irreprensibile. Torinese per nascita, ho vissuto a Roma, a Bruxelles e in Lettonia. Al momento mi trovo in Argentina, dove lavoro all’università di Mendoza. Scrivo da quando ho sedici anni, non ne posso fare a meno. Il mio primo romanzo si intitola "Ovunque tu sia" (streetlib, amazon, ibs, libreria universitaria)