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Fallimento di Lisbona: la colpa è degli Stati

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Questa volta la burocrazia europea c’entra davvero poco. E’ la lentezza delle capitali che blocca. Analisi.

Gli uomini di Lisbona, al Consiglio Europeo del marzo 2000, avevano visto giusto, dandosi l’obiettivo di fare dell’Unione l’economia della conoscenza più competitiva e dinamica del mondo entro il 2010, per realizzare una crescita economica sostenibile e una maggiore coesione sociale.

Obiettivo 3%

Il bilancio a metà strada è tuttavia davvero deludente: poco o nulla è stato fatto, gli obiettivi intermedi prestabiliti non saranno raggiunti. Sarà davvero difficile, infatti, riuscire ad aumentare il livello di investimenti in ricerca e sviluppo tecnologico dall’attuale 1,9 al 3 % del Pil dell’Unione europea entro il 2010, riuscendo inoltre ad aggiudicarsi i 2/3 di finanziamenti privati.

La conferma viene dagli ultimi dati disponibili: gli investimenti globali in attività di ricerca e sviluppo nell'Unione sfiorano il 2% del PIL, ma a un tasso medio annuo di crescita del 4% (dal 1997 al 2002), assolutamente insufficiente a conseguire l'obiettivo del 3% entro il 2010 (vedi fonte PDF).

Non basta. Anche gli altri obiettivi di Lisbona appaiono lontani. Il tasso di occupazione complessivo – cioè il numero di persone occupate sul totale della popolazione – è passato dal 62,5% del 1999 al 64,3% del 2002: troppo poco per raggiungere il risultato intermedio del 67% per il 2005. Il tasso di crescita della produttività per persona occupata in Europa è in calo dalla metà degli anni ‘90 e attualmente varia tra lo 0,5% e l'1%, (contro il 2% degli Stati Uniti). E gli investimenti complessivi delle imprese sono diminuiti, passando dal 18,3% del PIL nel 2000 al 17,2% nel 2002. Così come sono nettamente calati gli investimenti pubblici nell'Unione, in particolare penalizzando i settori delle infrastrutture di reti transnazionali e della conoscenza, elementi cruciali della strategia di Lisbona.

1000 procedure infrazione contro gli Stati

Ma il problema dell’Europa è anche che non riesce nemmeno a capitalizzare i suoi pur lenti passi avanti. Le tecnologie dell'informazione e della comunicazione contribuiscono alla crescita della produttività meno della metà rispetto ai livelli registrati negli Stati Uniti, a causa di un utilizzo e una diffusione ancora troppo lenti di queste tecnologie in alcuni settori dei servizi (settore finanziario e del commercio), nonché in alcuni settori industriali.

Così come c’è grave carenza di ricercatori altamente qualificati. Sebbene il numero dei ricercatori nell'Unione sia lievemente aumentato, passando da 5,4 per 1000 unità di manodopera nel 1999 a 5,7 nel 2001, il tasso raggiunto è nettamente inferiore al livello di Stati Uniti (8,1/1000) o Giappone (9,1/1000).

La strategia di Lisbona finora si è risolta in 6 principi guida, 117 obiettivi comuni, 9 processi coordinati aperti e centinaia di rapporti: un processo complesso e lento, che è stato l’alibi giusto offerto agli Stati per non fare praticamente nulla. Qui la burocrazia di Bruxelles c’entra davvero poco: se finora l’agenda di Lisbona è stata un fallimento, la responsabilità principale spetta agli Stati. Il 40 % delle direttive comunitarie adottate con riferimento alla strategia di Lisbona, infatti, non sono state ancora recepite dai Venticinque.

Così come non è un caso che il numero di procedure d'infrazione aperte a carico degli Stati resti superiore a 1000 e negli ultimi anni sia diminuito solo del 3%; segno di uno scarso impegno dei Paesi membri nell’assicurare concreta attuazione alle disposizioni comunitarie recepite.

Centri d’eccellenza

Come fare allora per rilanciare la Strategia di Lisbona? La Commissione europea uscente (vedi rapporto PDF), l’High level group di Wim Kok e il neo-commissario all’Industria Günter Verheugen sono unanimi: le panacea sarebbero i piani di azione nazionali e i centri di eccellenza europei.

Ciò significherà più responsabilità per gli Stati nazionali: i governi dovranno presentare piani di azione verificabili e divisi per tappe di realizzazione, non solo sull’occupazione, ma anche su innovazione, ricerca, educazione e ambiente, con l’indicazione di obiettivi vincolanti.

Così come si investirà su un ventaglio ristretto di grandi programmi, miranti a creare dei centri di eccellenza dotati di sufficiente massa critica: capaci, cioè, di raggiungere alti livelli di visibilità internazionale e di attrarre i migliori ricercatori da ogni paese del mondo.

D’altronde per realizzare l’agenda di Lisbona l’Europa dovrà investire di più e meglio nell’ “interscambio di capitale umano”, sostenendo la carriera dei ricercatori e incentivando il passaggio di cervelli stranieri (a partire dall’esperienza di “Erasmus Mundus”), anche prevedendo condizioni speciali di ingresso e permanenza dei cittadini di Paesi terzi nella Ue a fini di ricerca. Promuovere le risorse umane significherà anche garantire condizioni di tutela europea dei diritti di proprietà intellettuale, definendo finalmente il brevetto comunitario , così come rafforzando il collegamento fra la ricerca pubblica di base e le imprese. Gli obiettivi? Incentivare il trasferimento di tecnologia all’industria e rendere possibile un utilizzo degli stessi diritti di proprietà intellettuale negli enti pubblici di ricerca e nei partenariati pubblico-privato.