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Eurofestival: scialbo ma politicamente corretto

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Manuela Manelli

CulturaPolitica

La grande sagra di Eurovision (l’Eurofestival) assomiglia sempre più alla festa di compleanno di una tenera nonnina piena di acciacchi. Ma una nonnina che fa ancora funzionare bene la censura e che gioca con la politica all’acqua di rose: il caso georgiano e israelo-palestinese sono esemplari. Aspettando le finali del 16 maggio.

Il festival che ha inizio a Lugano, nel 1956, per mano di Lohengri Filipello, è ormai parte della notte dei tempi. In quell'occasione consisteva in un programma radiofonico con qualche macchina da presa che emetteva il segnale per quei pochi che potevano riceverlo. Da allora, è trascorso parecchio tempo. Oggi, come nella sua preistoria, questo longevo festeggiamento assomiglia sempre più ad un antico bazar, ad un faceto retrobottega o ad un mercato eterogeneo in cui si possono comprare i cenci più assurdi, gli ornamenti più freak e gli accessori più pacchiani da indossare. È che, nonostante la roulette sciovinista dei voti scelga una o un'altra sede, abbiamo l'idea di stare in un altro set, ma sempre dello stesso studio cinematografico. In più, questa grande vetrina del vecchio continente ha sempre voluto politicizzarsi. Tra fari ed attrezzatura, trilli e canzoni stonate, si è voluto porre fine a questioni regionali, vendette tra paesi vicini, orgogli nazionali: anche se poi è stato fatto poco, questo perché la censura ha fatto la sua parte, come sempre.

È vietato giocare con i sentimenti (nazionali)

Così sono state proibite, ipso facto, parole tacciate di essere insolenti e pungenti nei confronti di sentimenti politici, di credo o principi: come quando nel 2008 gli spagnoli dovettero cambiare le parole del Chiki-chiki per non parlare del venezuelano Chávez o di Rajoy, capo dell'opposizione del Partito Popolare spagnolo. Come se qualunque manifestazione che voglia essere artistica e innovatrice abbia l’obbligo di non essere sfrontata, insolente, incisiva, intelligente, critica e, in qualche modo, anarchica. Quest'anno la forbice della censura si è abbattuta sul candidato georgiano che, con We don´t wanna put in dice anche: «Non vogliamo Putin», alludendo all'invasione subita la scorsa estate dal paese caucasico. A sua volta, con Israele il festival ha cercato di integrare la politica nel suo programma. Come? Presentando un gruppo formato da un’israeliana e un’araba, ma quest’ultima di origine cristiana. Uno scandalo, secondo coloro che si battono per una realte integrazione. E, per concludere, i fan belga di Elvis gridano selvaggiamente indispettiti da Patrick Ouchêne che, con Copycat e un look alla Elvis Presley, offende in modo grave il re, ma non Alberto II, bensì quello del rock.

Tutto questo mi ricorda quando il governo del nostro generalísimo (Franco) si opponeva a Serrat (cantautore barcellonese che si rifiutò di andare all’Eurofestival per non poter cantare nella sua lingua, il catalano) e lanciava la sua crociata alla conquista dei successi nel '68 e nel '69. Uno spettacolo, se non fosse stato schifoso.

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Translated from Eurovisión: cutre pero políticamente correcto