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Enki Bilal: «Non parlare di questo mondo mi sembra indecente»

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Il disegnatore d’origine jugoslava Enki Bilal, 55 anni, fa lo slalom fra fumetti, cinema e geopolitica, conducendo i suoi lettori in un universo futuristico dove l’impegno politico è una componente fondamentale.

«C’è un po’ di me in tutti i miei personaggi» dichiara il disegnatore. Un po' di lui nella "donna trappola" dai capelli blu, Jill Bioskop. E un po’ di lui nell’astronauta ribelle dallo sguardo triste Alcide Nikopol, alias Nike. D’anagramma in pittogramma, i suoi eroi, belli e disperati, errano instancabili in quegli universi urbani tetri e poetici che sono valsi all’autore il riconoscimento della critica e l’interesse del pubblico. Silhouette fluida e scura, tratti fini e sguardo dolce, Enki Bilal è comodamente seduto nel suo atelier parigino, sul quale veglia la chiesa di Saint-Eustache. A Parigi si riposa, ma non si ferma mai. Ha da poco terminato l’ultimo tomo della sua Tetralogia del Mostro, una graphic novel portata a termine in dodici anni. «Una serie, questa, che forse richiede più sforzi di comprensione da parte del lettore ma dove il mio coinvolgimento è stato più personale» spiega l’autore. «Non amo le concessioni e rifiuto la dittatura della facilità, delle cose rimasticate e preconfezionate.»

Senza radici

Questo rifiuto del compromesso e il senso acuto del suo impegno gli sono valsi finora il riconoscimento mondiale: in vent'anni Bilal è divenuto un mostro sacro del mondo del fumetto francese e internazionale. Il suo talento è stato riconosciuto perfino in Giappone, regno dei manga.

Opere come Le falangi dell’ordine nero e la Trilogia Nikopol hanno segnato generazioni di lettori. I suoi disegni, velati di atmosfere urbane futuristiche, sono sistematicamente mescolati a riflessioni politiche ancorate al mondo attuale. «L’immaginario deve essere al servizio del reale» afferma Bilal. «Anche se il passato non mi interessa in quanto tale: è il suo scarto con il reale che me lo fa evocare» si giustifica. «Io faccio parte di questo mondo. Non parlarne mi sembra vergognoso.» Una sensibilità politica probabilmente legata alla sua esperienza di immigrato.

Nato a Belgrado da madre ceca e padre bosniaco, Bilal lascia la Jugoslavia di Tito negli anni Settanta. Destinazione: la Francia. «Avevo 10 anni, la partenza è stata brusca, un vero strazio» ricorda con lo sguardo perso nel vuoto. «Ma allo stesso tempo era prevedibile: era da troppo tempo ormai che mio padre, ex-sarto ufficiale di Tito, era in “viaggio d’affari”.»

L’arrivo del piccolo jugoslavo a Parigi è una «delusione», soprattuto per quanto riguarda le condizioni di vita. L’integrazione è «relativamente buona» e di questa «epoca nebulosa» Bilal conserverà l’amore per la lingua francese e il gusto della "parola giusta".

Appassionato di disegno e di cinema, Bilal scopre nel fumetto, allora in pieno sviluppo, «un mezzo di espressione adulto formidabile». Viene subito pubblicato sul giornale Pilote, disegna le prime tavole per le riviste Echos des Savanes e Métal Hurlant. La sua prima trilogia Nikopol, cominciata nel 1980, sarà completata 13 anni più tardi. È un successo: i lettori lo adorano. I colleghi consacrano il suo talento conferendogli il primo premio del Festival d’Angoulême nel 1987.

Nonostante questi riconoscimenti professionali, Bilal rifiuta ogni genere di classificazione, «mania tipicamente francese». Esempio: «I disegnatori sono autentici autori e il fumetto è un genere letterario a tutti gli effetti» tuona Bilal. E ancora: «L’etichetta di autore di fantascienza che mi è stata attribuita è ridicola». Per lui «una quindicina d’anni fa avvenimenti come l’11 settembre o come i trapianti del viso erano inimmaginabili.Ma il mondo accellera».

Artista eclettico

«Non ho mai avuto una strategia di carriera: tutto dipende dalle persone e dalla sorte» confessa Bilal, artista nomade e sfuggente. Agli inizi degli anni Novanta un «felice incontro» con un suo compatriota – il coreografo d’origine albanese Angelin Preljoaj – lo avvicina alla scenografia e alla danza. Con il balletto Romeo e Giulietta di Prokofiev, i due artisti riescono a fondere «due universi artistici grazie alla comune sensibilità balcanica.»

Bilal scorazza da un campo artistico all’altro ma quest’eclettismo, lontano dall’esprimere una «frustrazione» riguardo al fumetto, testimonia invece una curiosità e un’esigenza costanti. Altra passione: il cinema, che gli lascerà però un gusto «amaro» in bocca. Il disegnatore porterà infatti sul grande schermo opere quali: Bunker Palace Hotel, Tykho Moon e Immortal, ma queste non riceveranno al botteghino gli incassi sperati. «Io non faccio cose convenzionali» si giustifica Bilal. «La duplicità artistica è difficile da accettare: un disegnatore che fa del cinema non rientra nella norma». Silenzio.

Il conflitto nella ex-Yugoslavia non ha mai cessato di «nutrire» la sua opera, giustificando così il suo impegno politico. «Mi ha disgustato l’atteggiamento degli europei e specialmente la velocità con cui la Germania ha accettato il riconoscimento della Crozia, accelerando così il crollo della Jugoslavia». Lo hanno disgustato anche le «radicali prese di posizione di 'alcuni' intellettuali francesi. Non ci sono i buoni da una parte e i cattivi dall’altra» afferma il disegnatore. «Ma solo vittime.»

Altro tema a lui caro è l’Europa. Le sue origini rendono Bilal naturalmente legato ai paesi dell’Est che si sono «precipitati verso il sogno occidentale». L’allargamento, tuttavia, secondo lui è stato realizzato con troppa «avidità», generando in questo modo inevitabili delusioni e frustrazioni. E il domani? «Il futuro del pianeta, l’ambiente, è un tema che mi sta a cuore: il sapere come faremo a sopravvivere, ad adattarci, conservando la nostra umanità.»

Foto di Jef Bonifacino

Translated from Enki Bilal : « Ne pas parler de ce monde me semble indécent »