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Due oasi di pace e il caos sfrenato: sulle tracce dei rom romani

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Translation by:

Ester Garufi

societàPolitica

Tra un campo nomadi considerato un “esempio di integrazione sociale” e una lavanderia intesa come “simbolo del multiculturalismo”, i problemi delle comunità gitane a Roma restano profondi e lontani dall'essere risolti.

Zoppicando, cammina indisturbata con le braccia incrociate. Lo sguardo fisso, man mano che passa saluta i suoi vicini con un leggero cenno del capo. D’un tratto, rimprovera i bambini che si divertono a tirare ghiande su un cane addormentato. Sempre con le braccia incrociate. Lei è Ubizha Halilovic. La padrona del campo.

Se questa donna rom dimostra tanta sicurezza, è perché da anni, si è ritrovata a governare un villaggio di 203 persone. 203 persone di cui la maggioranza si è pronunciata in suo favore. Ricorrendo alle urne. Umizha è stata quindi eletta: “Sono diventata portavoce del campo in seguito alle elezioni organizzate dalla comunità”, dice con un pizzico di orgoglio. Poiché, anche in un campo nomadi di Roma, le reliquie di uno scrutinio vinto si vedono nelle cose di tutti i giorni. Mentre la maggioranza delle famiglie vive in prefabbricati, Umizha gode di una solida e spaziosa casa in legno colorato, di cui la particolarità è un bel terrazzino boscoso.

Autorizzazione, scolarizzazione, galera

Qui, al nord di Roma, vicino Monte Mario, il campo di immigrati bosniaci vive in una calma apparente. Paradossalmente, il villaggio è intitolato a Cesare Lombroso dal nome della via adiacente, lastricata, in omaggio ad un professore italiano che in “L'Uomo Delinquente" (1876) aveva elaborato il postulato secondo il quale alcune popolazioni, tra cui gli Tzigani, sono delinquenti per nascita. Paradossale. Tuttavia il Campo Cesare Lombroso è anche l'unico villaggio rom a trovarsi nelle vicinanze del centro città. Uno dei rari campi nomadi a Roma ad essere autorizzato dalle istituzioni locali (sette in tutto). Ma anche uno di quelli che è maggiormente riconosciuto come modello di integrazione sociale.

“In ogni caso, se una famiglia non vuole mandare i figli a scuola, io li caccio!”

“Il campo è stato autorizzato 10 anni fa, nel 2001. Così gli abitanti hanno potuto avere l’acqua e l’elettricità in cambio della promessa di scolarizzare i bambini”, spiegano Serena Masci e Catia Mancini, rispettivamente segretario e coordinatrice dell’associazione Arci Solidarietà incaricate della gestione del campo. Al Cesare Lombroso, su 203 abitanti, 34 famiglie - tutte originarie di Mostar - hanno, in media, 3 figli ciascuna. Su 110 bambini, 83 vanno a scuola. “In ogni caso, se una famiglia non vuole mandare i figli a scuola, io li caccio!” insiste Umizha.

I bambini hanno il cuore leggero. Liban, Brandon e Spiderman (i rom danno ai loro figli i nomi delle serie tv che preferiscono) si divertono contando le loro biglie. Ma cosa ne è degli adulti? Lontani dal candore infantile, la loro è tutta un’altra vita. “Se il sindaco riconosce il campo, le persone al suo interno non vengono invece riconosciute. Niente documenti, niente lavoro. Allora, per sopravvivere, abbiamo messo su un supermercato all’interno del villaggio dove vendiamo metalli, ferraglia e caucciù”. Nonostante i suoi 43 anni, Umizha ha il volto segnato. La prova di una vita di fatica. “Sono arrivata in Italia all’età di 6 anni. Non ho mai viaggiato. Ho chiesto l’elemosina per strada, cercando di vendere vestiti. Quando mi sono sposata, ho aperto un negozio in cui vendevo cose trovate nella spazzatura. Poi, nel 2001 sono arrivata al campo”.

"Alcuni rom vivono nel lusso"

Da quell’anno, Umizha e i suoi sembrano aver trovato la formula giusta. Buone notizie per i rom? “Niente affatto” secondo Massimo Converso, presidente dell’associazione Opera Nomadi, creata nel 1963 per aiutare le popolazioni rom ad inserirsi nella società. Il presidente riceve in tuta nella cantina della sede dell'associazione. Massimo ha preparato le sue “battute” e comincia subito con una “puntualizzazione”: “In Italia, il 90% dei Rom hanno i documenti. A Roma, la situazione è diversa. E non bisogna affatto prenderla come esempio”. In tre frasi, Converso, spazza via il problema delle espulsioni, dei documenti e dell’alloggio… Dinnanzi allo scetticismo dell’assistenza, aggiunge comunque: “Ok. La colpa è condivisa. Da un lato, il governo italiano non vuole riconoscere lo ius soli (diritto del suolo, ndt). Ma io conosco i rom. E i problemi di integrazioni ci sono anche per colpa loro. Posso dirvi che alcuni vivono nel lusso. A sud di Roma, molti serbi vivono in case splendenti”. Poi aggiunge, sicuro di ciò che dice: “C'è uno studio sul quale si è soffermato, 15 anni fa, Ratko Dragutinovic in I kañjarija. Storia vissuta dei rom dasikhanè in Italia. Vi descrive il fasto con il quale i suoi compatrioti decidono di condurre la loro vita".

Massimo Converso conosce anche il caso del Cesare Lombroso. Le elezioni? “Una farsa”. Il campo? “Un teatro”. L’associazione che lo gestisce? “Una lobby”. Gli abitanti? “Ladri di rame”. Si spiega: “I bambini non frequentano la scuola, le famiglie hanno un passato malavitoso”. Per lui, il simbolo del successo è un'altra cosa. Più precisamente, è una sua invenzione. Una tintoria gestita da donne rom che Opera Nomadi ha creato con l’aiuto del Vaticano, chiamata "Baxtalo Drom" (letteralmente “il cammino felice”).

Difficile decidere. Tuttavia, riguardo al contesto, né il campo Cesare Lombroso, né il Baxtalo Drom sembrano rappresentativi della realtà sociale. Basta mettere un piede fuori per rendersi conto che l’uno e l’altro sono oasi di pace. E gli altri? Vi sono 4.950 rom che vivono in periferia di Roma nella fragile massa di campi parzialmente tollerati (14) o illegittimi (80). E' dal lancio dei “piani nomadi” (invalidato dal Consiglio di Stato il 21 novembre scorso), che i rom fanno una vita da cani. Lanciata per iniziativa del prefetto di Roma il 31 luglio 2009, questa operazione aveva per scopo l'instaurazione di un quadro legale che permettesse di cacciare impunemente gli immigranti. Per arrivare a quota 6.000 Rom. Secondo una relazione di Amnesty International, i rom che vivono nei dintorni della capitale italiana risultano essere tra 12.000 e 15.000.

Umizha ha ragione ad insultare i politici, “ignoranti”. Ma sbaglia partita. Perché se il luogo in cui vive esiste, è ipocritamente grazie a loro. Perché questo campo resta e resterà un pretesto calcolato per espellere i suoi compatrioti. In massa. Altrove. Per il sindaco della città, Gianni Alemanno, e gli altri, il Cesare Lombroso conserverà sempre il suo significato iniziale: un professore che ha constatato la criminalità dei Rom dalla nascita.

Questo articolo fa parte del progetto Multikulti on the ground, serie di reportage sull’interculturalismo nelle capitali europee. Per saperne di più clicca su Multikulti on the ground.

Foto: home-page (cc) Francesco Paraggio/flickr ; Testo ©Matthieu Amaré ; Converso ©Ehsan Maleki ; Tintoria © Opera Nomadi 

Story by

Matthieu Amaré

Je viens du sud de la France. J'aime les traditions. Mon père a été traumatisé par Séville 82 contre les Allemands au foot. J'ai du mal avec les Anglais au rugby. J'adore le jambon-beurre. Je n'ai jamais fait Erasmus. Autant vous dire que c'était mal barré. Et pourtant, je suis rédacteur en chef du meilleur magazine sur l'Europe du monde.

Translated from Italie : sur la route du Rom des camps