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Daphne Bohémien: «Fare drag è una forma d'arte»

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Il mio primo incontro con Daphne Bohémien - nota Drag queen della scena milanese che si definisce “attivista, vegetariana, drama queen, amante dei gatti e dei capelli rossi" - è avvenuto su Instagram. Si è aperta così una finestra sul caleidoscopico mondo drag. Ma Daphne Bohémien non è solo una delle più note figure della scena drag italiana: è anche una divulgatrice e attivista per i diritti della comunità LGBTQIA+, delle persone HIV positive e, più in generale, delle minoranze. Intervista.

Daphne, cosa vuol dire per te fare drag?

Per me fare drag è una forma d’arte. Tuttavia credo che “drag” da sola non basti più, si dovrebbe iniziare a parlare di “drag +”, un termine più inclusivo: purtroppo, quando si parla di attività drag, si fa ancora riferimento all’ottica binaria per cui si intende un uomo che si traveste da donna o viceversa. Ma non è detto che io voglia diventare una donna quando mi travesto. Posso diventare qualsiasi cosa io voglia. Nel mio caso, fare drag è stato un atto terapeutico: mi ha aiutata - e mi aiuta tuttora -, a crescere. Allo stesso tempo, è il lavoro che “voglio fare da grande” a cui sto dedicando tutto. E non sono soltanto io a essere cresciuta: anche il mio personaggio si è evoluto.

Dimmi di più: in che modo si è evoluto il personaggio?

L’intento iniziale era “fare paura”. Avevo bisogno di creare un mostro più spaventoso di quelli che mi portavo dentro, e che “obbligasse” la gente a rispettarmi. Ero molto più “club kid”. Oggi invece il mio modo di fare e la mia estetica si sono addolciti. Non ho più bisogno di intimorire, l'arte drag oggi per me è altro: è creare connessioni con le persone, avere un dialogo e costruire una rete sicura per tutte e tutti.

Come riesci a creare questa rete sicura?

Io racconto la mia vita e mi piace che le persone si sentano libere di fare altrettanto: la mia storia appartiene a tutti coloro a cui la racconto. È solo così che si può creare una rete sicura dove io non mi sento sola nella mia stanza e i miei problemi non saranno affrontati solo da me, ma anche da una comunità che mi sostiene.

Quando hai iniziato a fare drag?

Il mio personaggio nasce quasi dieci anni fa… Direi che sono vecchia! (ride, ndr.). In particolare, nasce da un’infanzia e un’adolescenza turbolente. Ho avuto l’epifania quando ho visto il film Party Monster (film tratto dalla storia vera di Michael Alig, ambientato nella New York degli anni ‘90, ndr.): poco dopo, ho iniziato a costruire il mio personaggio.

Da dove viene il tuo nome d’arte?

“Daphne Bohémien” non è stato il mio primo nome, ma quelli precedenti sono troppo imbarazzanti per essere rivelati (ride, ndr.). L’ho scelto per diversi motivi: alcuni più frivoli, come il riferimento a Daphne Guinness che per me è una grande icona della moda, ma anche perché deriva da Daphoene, la dea greca del furore orgiastico… Insomma delle cose un po’ speciali! “Bohémien”, invece, l’ho scelto perché sono affezionata all’omonima corrente artistica. I bohémien fecero bandiera di quello che inizialmente voleva essere un insulto: erano “i poeti maledetti”. Le loro caratteristiche sono state un filo conduttore di molte mie performance. Oggi il mio stile è meno violento.

Dal momento in cui hai iniziato a fare drag come sono cambiati i tuoi rapporti in ambito famigliare e sociale?

A dire la verità non sono cambiati, i miei genitori mi hanno sempre sostenuto. Mia madre è la mia fan numero uno: mi chiede sempre foto o video, e condivide tutto su Facebook da boomer qual è (ride, ndr.). È veramente bravissima. Anche gli amici mi hanno accompagnato in questo percorso e alcune persone sono poi diventate le mie “figlie drag”: direi che è andata molto bene.

Inutile negarlo, le storie del mondo drag vengono spesso narrate in maniera drammatica: è molto importante invece condividere anche storie positive come la tua.

Assolutamente sì, la rappresentazione è fondamentale. E purtroppo oggi quella del mondo queer è una realtà spesso segnata dalla “pornografia del dramma”: si ricerca ossessivamente la tragicità. Io sono privilegiata: ho sempre avuto accanto famiglia e amici quando ho deciso di fare drag, quando ho scoperto di essere HIV positiva. E anche ora che ho deciso di intraprendere un percorso di transizione, ma credo sia importante dare anche una rappresentazione positiva come questa.

Molti però affermano che focalizzarsi sulla rappresentazione è superficiale: trattandosi di una questione di forma, spesso le rivendicazioni per la rappresentazione coerente e per il linguaggio inclusivo vengono definite “secondarie”.

L’utilizzo di un linguaggio inclusivo e la normalizzazione sono fondamentali: io, per esempio, sono HIV positiva e, se ci penso, forse mi viene in mente un solo film in cui ciò viene normalizzato. Di solito, viene visto sempre come il grande fardello da portare sulle spalle. Tutto questo porta le persone con HIV - che nel mondo sono ben 38 milioni - a non fare coming out, cosa che invece è fondamentale. Se hai il colesterolo alto non vieni additata, se hai l’HIV sì, perché c’è ancora l’idea che, essendo una malattia sessualmente trasmissibile, “te la sei cercata”. Avere una rappresentazione coerente, nella quale viene ribadito che una persona in terapia non trasmette il virus e può vivere serenamente, sarebbe un grande passo avanti. La rappresentazione onesta aiuta le persone che vivono una determinata tematica a non sentirsi sole, e quelle che non sono coinvolte in prima persona a conoscerla e capirla. Ecco perché è così importante: ne abbiamo bisogno perché fino adesso non c’è stata, oppure abbiamo avuto soltanto un contentino.

Come credi che venga trattata l'arte drag dai media italiani e da quelli europei?

In Italia siamo ancora indietro. L'arte drag viene vista come una macchietta, ed è ancora radicata quell’idea di binarismo di cui parlavamo prima. Nel resto d’Europa ci sono un filone artistico e una rappresentazione diversi: basti pensare che ci sono molte più donne biologiche, donne trans e persone non binary che fanno drag. Mentre in Italia si tratta per lo più di uomini gay. Certo, quest'ultima è una realtà di fatto, ma non è l’unica e mi dispiace che venga rappresentata solo questa dimensione. Io ho avuto la fortuna di esibirmi in diverse città e ho osservato percezioni diverse: a Berlino fare drag è più un’azione politica, mentre a New York è un lavoro fatto e finito. Qua in Italia è visto come un passatempo.

A Milano come ti trovi? Ritieni che ci siano più opportunità e una maggiore apertura mentale?

Non vorrei abitare in nessun’altra città italiana se non qui. Milano offre molte opportunità, e anche il mondo drag qui vive in una bella bolla. Qui c’è una tipologia di drag unica in Italia, molto improntata sulla moda, sul design, e ricca di contaminazioni. A Roma, per esempio, c’è più un’idea di drag nella quale si indossa un costume di scena, mentre qui un'interpretazione drag queen può legarsi anche a un abito normale. Insomma, Milano sa il fatto suo: c’è un ecosistema molto più ampio.

Credi che con i recenti lockdown si apra una strada per nuove declinazioni dell'arte drag?

Il mondo drag+ non era assolutamente preparato a tutto questo. Ci sarà sicuramente un’evoluzione, ma sapersi adattare, benché sia molto importante, è semplicemente funzionale al non morire artisticamente. Allo stesso tempo, però, l’esibizione dal vivo è un’altra cosa, c’è una magia che non è paragonabile.

Attualmente stai attraversando un percorso di transizione da uomo a donna: come sei arrivata a questa decisione?

Non credo sia corretto parlare di “decisione” perché si tratta più di una consapevolezza: arrivi a un punto in cui sai chi sei e decidi di agire di conseguenza. Per me è stato naturale: mi sono accorta che non mi presentavo alle persone con il nome che avevo sulla carta di identità, anche quando avevo la barba, mi presentavo come “Daphne”, ho sempre parlato di me al femminile… Sono arrivata a un punto in cui la disforia che avevo vissuto in maniera più leggera si è fatta presente in maniera più forte. E quindi ho preso questa decisione. Il percorso inizia prima da se stessi e poi passa alla parte esteriore, che tra l’altro può anche mancare. Ci sono molte persone trans che decidono di non intraprendere un percorso medico e chirurgico, oppure non si trovano in uno stato psicofisico e in un ambiente famigliare, sociale e lavorativo che lo consentano, per non parlare dell’aspetto economico.

Attualmente in Italia ci sono diverse restrizioni alla vita sociale e prima ancora c’è stato il lockdown: come stai affrontando il tuo percorso in una condizione così particolare?

Certamente il lockdown non aiuta, in quanto, durante un percorso di transizione, vorresti avere le persone a te care vicine o vorresti semplicemente poterti svagare e uscire con le amiche. Invece tutto ciò non è possibile e rende questa situazione impegnativa. Io devo dire per l’ennesima volta che sono privilegiata, perché abito con due persone amiche in una situazione ultra queer e artisticamente molto stimolante. È chiaro però che ci sono molti momenti di sconforto in cui vai in overthinking (“perdersi nei propri pensieri”, tdr.). È molto importante darsi il tempo e il modo di stare male e di validare le proprie emozioni.

In Italia è stato presentato al Parlamento (ed è in attesa di approvazione), un disegno di legge contro l’omo-lesbo-bi-transfobia che ha scatenato molte polemiche. Cosa pensi dei suoi detrattori che l’hanno definita un limite alla libertà d’espressione?

Denominarla “legge bavaglio” e quant’altro è inutile e stupido. Non si può pensare che nella narrazione di un evento del genere, il carnefice abbia la stessa valenza della vittima: non si può dare la parola alle persone che continuano a discriminare le minoranze. Io posso avere un confronto con chi la pensa diversamente da me, ma sulla base degli stessi valori. Paradossalmente, per essere più inclusivi bisogna essere meno inclusivi. Io non voglio più dare spazio a chi dice “io sono razzista, ma è la mia opinione”. Ecco, se la tua è un’opinione di merda, non è un’opinione valida, mi dispiace. Ormai il dibattito è sul tavolo: bisogna cercare di indirizzarlo e, se serve, fare la voce grossa. Perché, dopo anni di soprusi, non è vero che adesso non si possa più dire niente. Neanche prima si poteva, solo che non avevamo una voce per farvelo capire. È ridicolo nascondersi dietro il politically correct: se la tua opinione è sessista, razzista o omofoba non la puoi esprimere, perché lede l’umanità e i sentimenti di altre persone. In una società che dovrebbe essere evoluta mi aspetto che questo ragionamento sia condiviso da tutti.