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Da Rosarno a Calais: storie di un'Europa occupata

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Patrasso, Atene, Bari, Rosarno, Calais, Siviglia. È il percorso della speranza degli immigrati, a volte clandestini, altre regolari. Vie, palazzi, piazze occupate e sgomberate nell’Europa immigrata, nell’Europa occupata dai migranti.

Tutte le ruspe d’Europa

Comincia spesso tutto da Patrasso: è da questo porto greco che molti immigrati tentano la sorte giocandosi tutto, assaltando i camion in corsa. Duemila afghani, per lo più di etnia hazara, occupavano una zona della costa di Patrasso, poco distante dal porto: un brandello di litorale abitato dal 2002 dagli “immigrati di passaggio”, poiché in Grecia non si vedono riconosciuto lo status di rifugiati. Riconoscerlo significherebbe, infatti, ammettere che di democrazia, in Afghanistan, ancora non si può parlare. Oggi questo rifugio improvvisato non c’è più: lo scorso luglio è stato fatto sgomberare.

Duemila afghani a Patrasso, cinquecento algerini ad Atene. La storia si ripete non in una bidonville a cielo aperto, ma in via Sokratous, nei diecimila metri quadri dell’ex Corte d’Appello, un edificio che guarda spavaldo l’Acropoli. I proprietari non se ne curavano dal 2000, poi ne hanno chiesto lo sgombero, eseguito nel maggio 2009. Sono ancora afghani i protagonisti di un’altra storia molto più a nord, nella storica Calais, in Francia. Si ammassavano in quella che i giornali hanno chiamato “jungle” (la giungla): le ruspe sono arrivate per radere al suolo le baracche. Le persone e i problemi, però, rimangono. Come erano rimasti i 270 magrebini occupanti l’università Pablo de Olavide di Siviglia, nel 2002: anche qui tutto finì con lo sgombero. E ancora, l'ex clinica San Paolo di Torino fu occupata da circa 200 somali rifugiati e richiedenti asilo; un residence abbandonato a Bruzzano, periferia nord di Milano, fu abitato da 180 immigrati con permesso di soggiorno o con lo status di rifugiati politici.

Foto di Anna Franca Di Donna

Rimangono in terra italiana anche quegli immigrati di cui abbiamo appreso l'esistenza a fine 2009, quando a Rosarno, in Calabria, osarono ribellarsi dopo il ferimento di due di loro a colpi di arma ad aria compressa. Si tratta dell'ennesima vessazione per degli uomini che passano la loro giornata nei campi a raccogliere arance, e le notti all'interno di una fabbrica abbandonata, in condizioni disumane. Per spiegare questa rivolta il Governo italiano ha fatto ricorso al problema della clandestinità. Peccato che si trattasse d’immigrati in possesso di permesso di lavoro, di episodi di follia rivoltosa scatenata dall’ombra della ‘Ndrangheta.

Le arance di Daniel

Mi parla sbucciando un’arancia. Mi vorrebbe evitare, sbucciando un’arancia. Mi accontenta sbucciando un’arancia. Daniel viene dal Ghana. Raccogliendo arance è fuggito da Rosarno, mangiandole passa il tempo nel C.A.R.A. (Centro Accoglienza Richiedenti Asilo) di Bari Palese, finché non gli verrà concesso lo status di rifugiato.

Foto di Anna Franca Di Donna«Non l’ho richiesto prima perché non ne ho mai avuto bisogno: sono arrivato in Italia in aereo, avevo un permesso di lavoro; ho fatto il domestico a Udine, mi trovavo bene. Poi è iniziata la stagione delle arance a Rosarno e ci sono andato: un euro a cassetta. Avevo un buon rapporto col mio capo». Poi le rivolte, gli chiedo. «No, non rivolte - mi corregge – proteste. Basta, ho perso tutte le mie forze e i miei soldi nella storia di Rosarno. Non ne voglio più parlare. Sono qui, ora». Se anche Daniel ottenesse lo status di rifugiato, non potrebbe goderne fuori dall'Italia, ma non gli interessa: «Voglio rimanere qui – dice - mi piace Bari. Bari non è Rosarno, Udine non era Rosarno».Daniel è uno dei 20 immigrati provenienti da Rosarno e rimasti al C.A.R.A. Gli altri 304, che come lui arrivarono il 10 gennaio 2010, sono andati via perché un permesso di soggiorno ce l’avevano già.

Al Grand Hotel

Rimanendo in Puglia, resistono ancora i 40 rifugiati somali che hanno occupato il Ferrhotel, ex albergo barese per i dipendenti Trenitalia disabitato da anni: non hanno l'elettricità, ma gli è stata allacciata l'acqua. Il tam-tam politico sulla questione è accesissimo.

La chimera della clandestinità

«Tutta colpa della clandestinità». È l’espressione utilizzata dal Ministro degli Interni, Roberto Maroni, per commentare la situazione di Rosarno, quando la rivolta era ancora nel vivo. In realtà al C.A.R.A. di Bari sono arrivate quasi esclusivamente persone con permesso di soggiorno e con status di rifugiato già ottenuto. Non erano i clandestini, dunque, i responsabili di questa esasperazione del clima. Non lo erano neanche nelle storie di occupazione nel resto della Penisola.

L’Italia vive una situazione particolare: in altri paesi europei, infatti, è la prima accoglienza ad essere in bilico. Si tratta della prima fase di cura dell'immigrato appena arrivato, e dunque clandestino, o di tutela dell’eventuale richiedente asilo; in Italia è invece la “seconda accoglienza” a non essere garantita, ovvero quella fase in cui si dovrebbe lavorare per garantire un nucleo di diritti fondamentali all'immigrato regolarizzato. Infatti, è fuori dai centri di prima accoglienza che la situazione vacilla. Un rifugiato ha dei diritti, come il diritto ad un tetto, e se questi diritti non sono garantiti gli immigrati si vedono costretti a misure alternative come le sistemazioni di fortuna, e le occupazioni. William Faulkner scriveva che “vivere nel mondo di oggi ed essere contro l'uguaglianza per motivi di razza o colore è come vivere in Alaska ed essere contro la neve”. L'Europa intera dovrebbe riflettere sul senso di questa frase.

(Tutte le foto sono di Anna Franca Di Donna).